Mikhail Gorbachev, un visionario sfortunato
di Ferdinando Salleo
Protagonista dell’ultimo ventennio del secolo scorso in un periodo di tensioni
politiche e rischi militari, artefice della fine della Guerra fredda (con buona
pace dei reaganiani…), Mikhail Gorbachev non trova ancora il suo posto
nella galleria dei grandi attori della storia contemporanea. L’ultimo
presidente sovietico è conteso in patria e all’estero tra estimatori e detrattori,
tra chi gli rimprovera di aver distrutto l’URSS e il suo partito comunista e chi
esalta il disegno di riforma dello Stato comunista di Lenin verso la democrazia
e il mercato. Non manca chi ne loda l’abrogazione della “dottrina Brežnev” e il
conseguente crollo del muro di Berlino e chi critica la sua scarsa sensibilità
per i nazionalismi compreso quello grande-russo. Si dibatte, infine, tra chi ne
condanna la rinuncia al disegno di supremazia militare e chi gli riconosce la
paternità e il lungimirante lancio degli accordi nucleari con Washington
necessari per costruire la pace mondiale in un equilibrio stabile e
tendenzialmente denuclearizzato.
Mikhail Sergeevic, uomo di contraddizioni che ha cambiato la storia. Prodotto
del sistema sovietico, politicamente vicino al riformismo di Andropov e amico
dei riformisti della “primavera di Praga”; passato dal trattore del Kuban
agricolo alla laurea in legge a Mosca e alle buone letture; ragionatore più che
trascinatore di folle; impopolare per l’accento provinciale che i russi, puristi
appassionati della loro lingua, gli hanno sempre rimproverato, come la
battaglia contro la vodka; uomo di audaci visioni politiche umaniste, di disegni
ideali non privi di realismo, tanto da scrivere nel 1989 sulla Pravda che “il
futuro non può essere frutto di sogni: nasce dalla realtà”.
Più popolare all’estero che in patria. Rammento ancora il trionfo a Milano
con la gente che gremiva la Galleria e si sporgeva dalle finestre a conclusione
della visita in Italia (e in Vaticano) nel novembre 1989 quando giunse a
chiedere al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e al Presidente
del Consiglio Giulio Andreotti “il sostegno di Roma per la costruzione della
nuova Europa”, l’ardito disegno di una “casa comune europea” in cui trovasse
posto, riformato, l’antico Paese degli zar e dei Soviet. Nei confronti dell’Italia,
del resto, Gorbachev ebbe sempre sentimenti di grande amicizia e
gratitudine per l’apprezzamento che per tempo il nostro Paese aveva
manifestato per le sue riforme. Alla grande esposizione “Italia 2000” del 1988
il Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita aveva portato a Mosca mezzo
governo e le principali personalità della scienza e dell’economia: nella
gigantesca Fiera di Mosca, il leader sovietico si fermò per un’improvvisata
colazione nel padiglione della FIAT e della Ferrari.
Le iniziative di politica estera, disarmo e controllo degli armamenti
sembravano a tratti far premio sulle riforme interne lanciate nel 1988. Dopo
Reykjavik e il trattato INF per lo smantellamento degli armamenti nucleari
intermedi, l’incontro con George H.W. Bush a Malta alla fine del 1989 rafforzò
un processo negoziale che avrebbe portato nel 1991 al primo trattato START
sulla limitazione delle armi strategiche e allo START II, firmato poi da Boris
Yeltsin nel gennaio 1993.
Il processo di riforma gorbacheviano – la perestrojka e la glasnost nel
“nuovo pensiero” politico – con una certa libertà d’informazione e
l’introduzione di forme di proprietà privata che avrebbero fatto inorridire Lenin,
procedeva a rilento nella resistenza dei burocrati del sistema sovietico e
dei boiardi delle colossali imprese statali e del “complesso militare-industriale”.
Dopo una pur modesta riforma elettorale parlamentare per il Congresso dei
Deputati del Popolo, con l’elezione del Presidente dell’URSS aumentarono i
poteri del Cremlino in mezzo alle proteste, mentre crescevano le inquietudini
delle nazionalità non russe che pian piano si sarebbero trasformate in rivolte,
poi represse nel sangue come a Vilnius e negli altri Paesi baltici l’anno
seguente. Gorbachev ricorse a un rimpasto del governo chiamandovi gli
esponenti della linea dura che avrebbero più tardi partecipato al colpo di Stato
contro di lui nell’agosto 1991. Mentre Yeltsin era ormai il principale
oppositore-competitore, il progetto di rinnovamento dell’Unione Sovietica
venne rifiutato da sei repubbliche baltiche e caucasiche mentre aumentavano
le manifestazioni pubbliche anche a Mosca. Gorbachev tentò a Novo Ogorevo
la ricomposizione politica con Yeltsin e i presidenti di alcune repubbliche: il
suo disegno di riforma si basava su un piano economico per l’Unione
Sovietica trasformata in unione politica di repubbliche indipendenti –
diversa cosa era per i russi la sovranità – parti di uno Stato centrale dotato di
difesa e politica estera comuni e di un mercato senza frontiere, un progetto
ancora vago che, riteneva, avrebbe potuto salvare l’unità del Paese.
Affidato a due economisti di tendenza liberale, Stanislav Shatalin e Grigory
Yavlinskij, il piano del passaggio all’economia di mercato, detto “dei 500
giorni” dal periodo previsto per la trasformazione che richiedeva un contributo
finanziario occidentale stimato in parecchi miliardi di dollari, fu via via
annacquato. La presidenza britannica del G7 aveva segnalato infatti al
Cremlino che non vi erano disponibilità finanziarie di tale grandezza, ma che
sarebbe stato possibile esprimere a Gorbačёv un chiaro appoggio politico. Al
G7 del luglio 1991 i buoni sentimenti e i discorsi politici prevalsero: invitato al
vertice di Londra, il Presidente dell’Unione Sovietica argomentò e ascoltò, ma
tornò a Mosca senza che il consesso avesse prodotto impegni concreti.
La situazione in URSS, dunque, precipitò presto nell’agitazione generale in
un’incredibile confusione tra le forze che si opponevano alle riforme e
quelle che le reclamavano a gran voce: meno di due mesi dopo, un colpo di
Stato avrebbe posto fine all’esperimento di Gorbachev. Decretato lo stato
d’emergenza il 19 agosto, otto esponenti dei vertici del partito, del governo,
delle Forze Armate e del KGB riuniti in un comitato “d’emergenza”, deposero il
presidente dell’URSS per “motivi di salute”: il vice presidente Gennady Yanaev
assunse i suoi poteri. Una delegazione dei congiurati si recò subito a Foros in
Crimea da Gorbachev per imporgli di dare le dimissioni. La richiesta fu
fermamente respinta: il presidente era ormai prigioniero dei golpisti.
Anziché svilupparsi in tragedia, il “golpe rosso” si trasformò ben presto in
farsa. Alla televisione, nella conferenza che annunciava il colpo di Stato,
buona parte degli otto golpisti sembravano esser stati non troppo lontani dalla
bottiglia. Mosca fu occupata dalla divisione territoriale, anziché dalle truppe
del KGB, da giovani carristi imberbi, cioè, che si guardavano attorno smarriti.
Il golpe si sgonfiò, fortunatamente senza scontri e con solo tre vittime.
Liberato e tornato a Mosca dopo che Yeltsin ebbe animato l’opposizione
popolare ai congiurati salendo sull’ormai celebre carro armato, Gorbachev
tentò di salvare le riforme di struttura a cui legava il suo destino e ingaggiò
con il presidente della gigantesca Federazione Russa e quelli delle altre
repubbliche sovietiche un dialogo sulla nuova struttura dell’Unione.
Nel tormentato autunno 1991, tra le pubbliche manifestazioni di sostegno e
apprezzamento da parte di tutti i governi del mondo per l’opera di Gorbachev
da un lato e, dall’altro, tra referendum e proclami nella sorniona ipocrita
cospirazione di Yeltsin, dell’opposizione e dei “baroni” delle repubbliche,
andava in scena nel teatro sovietico la giornata degli inganni.
La conclusione era ormai alle porte. L’8 dicembre, nella foresta di Belovez
vicino alla fatidica Brest-Litovsk, i presidenti della Russia, della Bielorussia e
dell’Ucraina dichiaravano che “l’Unione Sovietica aveva cessato di
esistere” e proclamavano la creazione della “Comunità di Stati Indipendenti”.
Si accodavano, man mano, gli altri fino al 21 dicembre segnando così la fine
del disegno istituzionale e della stessa vita politica di Gorbachev.
Nel pomeriggio del 24 dicembre, vigilia di Natale per noi, andai a trovarlo,
ancora al Cremlino nel suo studio, per consegnargli un messaggio del mio
governo. Con il collega Aldo Amati, perfetto conoscitore della lingua russa,
trascorsi con Michail Sergeevic e con Anatoli Cernyaev che lo assisteva
un’ora in cui l’ormai ex-presidente ripercorse la sua ordalia con toni mesti
quanto intellettualmente e moralmente fermi, sicuro di aver combattuto la
buona battaglia “aggredendo frontalmente il totalitarismo, cosa difficile perché
i suoi germi sono diffusi in tutto il tessuto sociale e radicati nella coscienza
collettiva: ciò che rende ardue le riforme e le trasformazioni”. Concluse
chiedendomi di esprimere al governo italiano la sua gratitudine per quanto
Roma aveva fatto “per la Russia”. Raccolte le carte, mi accompagnò
attraverso la schiera dei collaboratori raccolti per il suo congedo.
Il giorno successivo, Natale 1991, dopo il commosso ma composto
messaggio di addio alla televisione dell’ultimo presidente sovietico, la
bandiera rossa con la falce, il martello e la stella fu ammainata dalla sommità
del palazzo del governo del Cremlino e il tricolore russo venne innalzato a
garrire al suo posto.
Eroe tragico del nostro tempo, statista di buona fede e di grande visione
politica, Mikhail Sergeevic Gorbachev riceverà dalla Storia il riconoscimento
che gli spetta, ben più alto del premio Nobel per la Pace che gli fu concesso
nel 1990 “per il ruolo guida nel processo di pace che oggi caratterizza parti
importanti della comunità internazionale”.
Quanto è accaduto dopo di lui, dal caos di Yeltsin a Vladimir Putin, alla
“verticale del potere” e alla politica estera assertiva, è dinanzi ai nostri
occhi: ma il sistema che governa la Federazione Russa non è più quello
sovietico e la Russia non è l’URSS. Non poco dell’irrealizzato disegno di
Gorbachev torna alla nostra mente con nostalgia per quello che avrebbe
potuto essere lo scenario del mondo. Forse la congiura delle circostanze ha
arrestato – chissà, rinviato – un processo troppo ardito, forse era prematura la
visione riformatrice di Mikhail Sergeevic.
Qualunque sia l’ipotesi che la storiografia esaminerà quando tutti i fatti
saranno noti, saremmo portati a rammentare che, purtroppo, il presidente
sovietico aveva ignorato il monito di Tocqueville che “l’antico regime non fu
mai tanto in pericolo come quando cercò di riformarsi dall’interno”.
Gorbachev: il russo che rifiutò di essere
zar
di Roberto Toscano
In Italia, e non solo, Mikhail Sergheevic Gorbachev viene comunemente
considerato come una delle grandi figure della seconda metà del XX
secolo, un protagonista senza il quale la storia della Russia, e di
conseguenza anche dell’Europa e del mondo, avrebbe preso altre e più
inquietanti direzioni. I regimi di solito non finiscono in modo indolore, e basta
pensare alla fine della Jugoslavia per immaginare cosa sarebbe accaduto se
l’Unione Sovietica fosse stata governata, nel momento della sua crisi finale,
da un Milosevic invece che da un Gorbachev.
Anche se, come per tutti i politici, non mancano nel suo itinerario errori e
contraddizioni, sarebbe ingiusto negare la sua statura morale mettendo in
dubbio l’autenticità del suo disegno di un superamento delle storture e delle
violenze del “socialismo reale”. La sua fu una profonda maturazione politica
iniziata negli anni Cinquanta, quando Gorbachev era studente alla facoltà di
giurisprudenza dell’Università di Mosca. Tra i banchi universitari conobbe,
divenendone amico, Zdenek Mlynar, che qualche anno dopo sarebbe
diventato uno dei principali dirigenti cecoslovacchi della “Primavera di Praga”.
Sembra difficile considerare pura coincidenza quell’amicizia tra due giovani
comunisti che da allora cominciarono ad interrogarsi sul senso, i limiti e le
distorsioni dell’idea socialista. Quando nel 1987 chiesero a Gorbachev quale
fosse la differenza fra il suo progetto politico e la Primavera di Praga, lui
rispose: “19 anni”.
Ma allora, come mai in Russia Gorbachev risulta oggi disprezzato, anzi
spesso odiato? Cosa spiega questa clamorosa divergenza di giudizio fra
l’opinione pubblica esterna e quella interna?
Per cercare di comprendere un fenomeno che ci lascia perplessi vale la pena
di percorrere le pagine del libro Tempo di seconda mano, di Svetlana
Aleksievic, premio Nobel alla letteratura nel 2015 – uno straordinario testo in
cui si raccolgono le testimonianze di persone che hanno attraversato i
drammatici anni del comunismo e della sua fine.
In quelle testimonianze, la figura di Gorbachev ritorna ripetutamente, e di
solito con una connotazione nettamente e spesso rabbiosamente negativa.
Qualcuno lo attacca per avere abbandonato il comunismo, “un’idea in cui
aveva smesso da tempo di credere” e aggiunge: “Segretamente, o
inconsapevolmente, era un socialdemocratico”. Ma il consenso principale
verte su un’altra accusa: quella di avere distrutto l’URSS. In Russia la
nostalgia più condivisa è quella per lo stato sovietico piuttosto che per il
regime: “Non fosse stato per lui vivremmo tuttora in Unione
Sovietica…Eravamo una formidabile superpotenza, e la nostra volontà era
legge in molti paesi. La stessa America ci temeva”.
Qualcuno addirittura lo condanna per non avere usato la forza nel momento
della crisi o chi, addirittura, lo definisce “un Gandhi russo”, “una specie di
monaco buddista”, “un profeta, non un capo”.
Ma non si tratta solo delle valutazioni retrospettive di una vicenda storica
ormai superata. Per comprendere il motivo dell’impopolarità di Gorbachev in
Russia basta elencare le ragioni della popolarità dell’attuale presidente
Vladimir Putin. Sotto molti punti di vista Putin è visto infatti come l’esatto
contrario di Gorbachev. Per citare ancora una delle testimonianze raccolte da
Svetlana Aleksievic: “Noi russi abbiamo bisogno di uno zar. E Gorbachev
non ha voluto essere uno zar. Si è rifiutato”.
Vladimir Putin non si è rifiutato di essere un novello zar. Non disdegna la
forza. Usa tutti i mezzi perché la Russia possa nuovamente contare. Cerca
una rivincita sull’umiliazione che tutti i russi, comunisti e anticomunisti, hanno
sentito nel momento della fine dell’Unione Sovietica. Pur essendo erede dello
“stile sovietico” (non è difficile riconoscere in lui i segni distintivi dell’ex
colonnello del KGB) si ricollega all’“idea russa” che fornisce ancora oggi una
forte base identitaria in chiave di continuità al di là dei cambiamenti di regime.
Per farlo ha ostentatamente abbracciato la fede ortodossa e ha reso omaggio,
prima e dopo la sua morte, al più grande nemico intellettuale del comunismo e
più grande sostenitore della Russia Eterna, Aleksander Solzhenitsyn.
Quel Solzhenitsyn che nel 2008, pochi mesi prima di morire, diceva
all’ambasciatore americano a Mosca William Burns (come risulta da un
messaggio diplomatico pubblicato da Wikileaks) che, mentre Gorbachev
aveva danneggiato ulteriormente lo stato russo, già indebolito da settanta anni
di comunismo, “con Putin la nazione sta riscoprendo cosa significa essere
russi”. E non si tratta soltanto di ideologia. Nel suo saggio pubblicato nel 1990,
“Come ridare vita alla Russia”, Solzhenitsyn definiva l’Ucraina “uno stato
artificiale” e affermava categoricamente: “Il popolo ucraino non esiste”,
esprimendosi a favore di uno stato formato da Russia, Ucraina e Bielorussia
con l’aggiunta di territori, da scorporare e annettere, di altri stati ex-sovietici in
cui vivano popolazioni russe, sulla base del principio (interpretato in modo
simile anche da Milosevic) secondo cui là dove vivono russi è Russia.
Esattamente il contrario della visione quasi confederale – patetico tentativo in
extremis di salvare lo stato sovietico – che Gorbachev formulò nel 1990 in
esplicita polemica con la proposta di Solzhenitsyn.
Forse un giorno, superata l’attuale egemonia del nazionalismo autoritario
di Putin, il popolo russo arriverà ad una visione più equilibrata, anche se non
priva di giustificati elementi critici, della figura di Mikhail Gorbachev. Ma dovrà
passare molto tempo.
Gorbachev e gli ultimi giorni dell’Unione
Sovietica
di Demetrio Volcic
Ripubblichiamo di seguito una testimonianza di Demetrio Volcic
(1931-2021), storico corrispondente RAI da Mosca negli ultimi anni
dell’Unione Sovietica, pubblicata da ISPI nel 2019
Sono almeno due i padri spirituali di Mikhail Gorbachev: da una parte
Jurij Vladimirovic Andropov – già segretario generale del Partito
Comunista Sovietico e capo di stato – con il quale per altro ha condiviso
una profonda conoscenza dell’opera e del pensiero di Niccolò Machiavelli;
dall’altra Anatoly Sobchak, il grande sindaco di San Pietroburgo e
protagonista delle riforme.
Una soddisfazione fu il Premio Nobel per la Pace nel 1990. Ma in Russia
il consenso per il riconoscimento fu tiepido. Per qualcuno, il Nobel era un
tipico premio per i “servi dell’Occidente”. E alla fine, a causa della
situazione nel Paese, Gorbachev fu invitato a rinviare il ritiro del premio a
Stoccolma.
Era uno dei momenti più critici della storia russa. Il raccolto era
pessimo e, spesso, per i lavori agricoli venivano impiegati i soldati. Intanto,
né gli specialisti russi né quelli occidentali sembravano possedere la ricetta
della ripresa. Sono passati per Mosca, hanno compilato soluzioni, ma il
rublo restava debole.
L’ultima riunione in cui provare un nuovo modo di procedere era fissata per
il 21 agosto 1991. Il giorno prima Gorbachev era ancora in vacanza a
Foros, in Crimea, quando annunciarono una visita da Mosca. Gorbachev
tentò di chiamare il suo ufficio al Cremlino, ma i telefoni erano muti. Entrò
la delegazione, si conoscevano tutti, vecchi compagni. Lo invitarono a
firmare un documento sullo stato di emergenza. Rifiutò. Gliene sottoposero
un altro con cui avrebbe dovuto cedere il potere.
Il suo medico si spaventò: aveva ricevuto da Mosca poche ore prima una
iniezione per il presidente, afflitto da mal di schiena, per metterlo in
condizione di partire l’indomani. E se invece di un antidolorifico fosse stato
un veleno?
Tornati a Mosca, gli emissari chiesero a noti medici di firmare una
dichiarazione sul peggioramento delle condizioni di Mikhail Sergeevic
Gorbachev. Nessuno di loro accettò.
Intanto, intorno alla Casa Bianca decine di migliaia di persone si raccolsero
a difesa della Perestrojka, la Russia migliore.
La riunione serale dei putschisti finì male: Il Primo Ministro Valentin Pavlov
fu portato via in ambulanza in stato di coma etilico. Anche gli altri non
stavano molto meglio, lo riconobbero poi più tardi al processo.
I disordini durarono tre o quattro giorni. Il Parlamento si riunì in plenaria:
Boris Yeltsin si stava comportando da vincitore contro un Gorbachev
stravolto, arrivato direttamente dall’aeroporto, in giacca a vento. Lo
costrinse a leggere in pubblico l’elenco dei rivoltosi, e fu in quel momento
che Gorbachev apprese che quasi tutti i cinquanta ministri erano schierati
contro di lui, anche se poi più tardi si scoprì che l’elenco dei cospiratori era
esagerato e falso.
I problemi non cambiarono, ma la geopolitica alla fine perse d’asprezza.
Rapporti con l’Occidente, compromesso con l’opposizione interna, tensione
tra le strutture portanti, esercito e KGB, controllo sugli stati satellite: c’erano
sempre battaglie cruente all’interno del vertice. Un tempo finivano con la
morte o nei lager, metodi che Gorbachev rifiutava. Gli storici hanno dovuto
ricostruire gli eventi del passato con l’aiuto delle memorie e della fantasia.
Ma la storia non è stata sempre scritta così?
Poi, un giorno, noi giornalisti fummo invitati a Camp David. Nella sala c’era
di tutto, ping-pong, calcetto, tavoli da gioco, un piccolo bar e tante poltrone.
Ma lo sguardo di noi tutti si rivolse subito altrove: oltre le vetrate c’era il
campo da golf con due giocatori. Erano Gorbachev, non un esperto, e il
presidente americano George H. W. Bush. Muovevano le loro mazze in
modo inconsueto e a tratti ridicolo. Secondo i colleghi che più di me si
intendevano della materia, i due stavano parlando di postazioni
missilistiche. In particolare, il tema erano gli euromissili: Bush avrebbe
dovuto dimenticare i suoi Cruise e i suoi Pershing e Gorbachev i suoi
SS-20. Tornato a casa, Gorbachev convocò i suoi esperti nucleari e chiese
loro se per caso non avessero tentato di migliorare gli euromissili.
Risposero che sì, un poco erano migliorati: ora erano più precisi, più
pesanti, più efficaci. Ma erano ancora euromissili? Per gli americani non
più. L’accordo sovietico-americano sugli euromissili è stato firmato
nell’87 a Washington con il presidente statunitense Ronald Reagan.
Nel luglio 1991 il segretario di Stato americano James Baker si fermò a
Mosca. E in quel momento arrivò la notizia che l’Iraq aveva invaso il
Kuwait. Sul tema controverso si tentò di arrivare a un comunicato
congiunto. Le prime tre versioni furono scartate, mentre per la quarta
venne scelta una formula diversa. Così, fu convocata una conferenza
stampa, ma senza giornalisti. L’unica telecamera era puntata sui due
oratori, mentre il resto della la sala era vuoto. Le dichiarazioni,
sufficientemente generiche, furono trasmesse in America, ma non
nell’URSS. E gli esperti conclusero che stava vincendo la collaborazione
con Washington.
Ma è difficile cambiare gli umori politici.
La rivista russa “Argomenti e Fatti” (tiratura 1.702.559 copie) elabora una
speciale classifica: il più popolare del passato è Leonid Breznev, con il 47
percento delle indicazioni. Segue Stalin con il 46 percento. E non
sorprende che Putin stravinca con l’83 percento. Nell’elenco degli otto capi
da Lenin in poi, Gorbachev e Yeltsin sono invece lontani agli ultimissimi
posti. Indifferenza, frustrazione, orgoglio nazionale ritrovato dopo l’Ucraina:
oggi è questo il mix del populismo russo, che poi probabilmente non
riguarda che metà della popolazione.
Ormai il mondo si abitua a due concetti: perestrojka e glasnost’, riforme
strutturali e trasparenza. O procedono insieme o falliscono, diceva
Gorbachev.
Alla fine degli anni ottanta, si festeggiava uno dei tanti anniversari a Berlino
Est alla presenza del comunismo mondiale. Erano centinaia di migliaia i
soliti cittadini convocati e, sotto il muro, i capi. Quanto durerà ancora il
muro? Era la domanda che riecheggiava nella mente di tutti. Il capo di
stato della Germania est Erich Honecker rispose: “Se necessario anche
cent’anni”. E Gorbachev colse l’occasione per dire che “chi è in ritardo sulla
storia pagherà caro”. Il muro crollò pochi giorni dopo.
Alla fine, nell’addio tra i presidenti, Gorbachev ricevette un edificio per il
suo Centro Studi. Avrebbe potuto essere quasi un contropotere, ma non se
ne fece nulla, perché ormai mancava lo spazio geopolitico. E proprio lo
stesso giorno un funzionario intimò alla moglie di Gorbachev lo sgombero
in ventiquattro ore della Dacia.
Nel suo addio alla Tv nazionale, Gorbachev non menzionò Yeltsin e non gli
fece gli auguri. Restava aperta la questione della valigetta con i codici
nucleari. Senza cerimonie la consegna fu eseguita da funzionari militari e
non in forma solenne dai due protagonisti. Fu così che Gorbachev uscì
dalla cronaca ed entrò nella storia.
L’eredità storica di Gorbachev: una
questione di geografia
di Eleonora Tafuro Ambrosetti
“La storia del mondo non è altro che la biografia di grandi uomini”, disse nel
XIX secolo il filosofo Thomas Carlyle, riferendosi alla capacità degli “eroi” di
plasmare la storia attraverso doti personali e ispirazione divina. Oggi questa
visione personalistica della storia è stata ampiamente superata. Il caso di
Mikhail Sergeyevich Gorbachev, scomparso il 30 agosto a Mosca a 91 anni,
sembra tuttavia un’eccezione. Sono in tanti, infatti, a credere che senza
l’ultimo segretario del PCUS dell’Unione Sovietica (prima del suo scioglimento
nel 1991), la storia avrebbe preso un altro corso.
Sia in Europa che negli Stati Uniti, Gorbachev viene associato alla
distensione, al riavvicinamento est-ovest, alla fine della guerra
sovietico-afghana (1979-1989), alla riunificazione della Germania e al crollo
della cortina di ferro. Non è un caso, dunque, che la sua morte sia stata
accolta con grande commozione da molti leader occidentali: per Ursula
von der Leyen era un “leader affidabile e rispettato”, che ha svolto un ruolo
cruciale per porre fine alla Guerra Fredda aprendo la strada a un’Europa
libera. Emmanuel Macron lo ha chiamato “uomo di pace” che ha “cambiato la
nostra storia comune”. Gorbachev era anche un uomo carismatico che non
faceva fatica a mostrare il suo lato più umano, il suo amore per la musica e
per la moglie Raisa Gorbacheva, come dimostrano le testimonianze del
giornalista della BBC Steve Rosenberg o il regista Werner Herzog che ha
girato un documentario nel 2018.
Nemo propheta in patria
Non è tuttavia un segreto che Gorbachev non godesse di altrettanta stima in
patria. Il punto di vista russo è, infatti, drammaticamente diverso da quello
occidentale. La disgregazione dell’Unione Sovietica e il conseguente caos
politico ed economico degli anni ‘90 sono percepiti come il risultato della
capitolazione di Gorbachev all’Occidente. Questo è ancora più rilevante
alla luce della strumentalizzazione da parte del Cremlino del periodo
successivo al crollo dell’URSS nel perseguimento dei suoi obiettivi politici.
Come afferma Gulnaz Sharafutdinova, inquadrare gli anni ’90 come un
trauma collettivo per la popolazione è una delle strategie più efficaci per
sostenere l’attuale sistema politico autoritario. Forse è anche per questa
strumentalizzazione che la stragrande maggioranza dei russi ha
un’opinione così bassa di Gorbachev: Secondo un sondaggio pubblicato
nel 2017 dal Levada Institute, solo il 7% dei russi intervistati ha affermato di
rispettare l’ultimo leader sovietico che ha vinto il Premio Nobel per la pace nel