Transizione (in)sostenibile?
di Alberto Guidi
La transizione digitale accelererà o rallenterà quella ecologica? La
domanda è quanto mai attuale. La scorsa settimana Ethereum, la blockchain
con il più grande numero di applicazioni attualmente esistente, ha completato
l’atteso aggiornamento del software noto come Merge, passando a un
framework più sostenibile dal punto di vista ambientale. Da un lato,
l’evoluzione tecnologica sta quindi facilitando l’efficientamento
energetico, specialmente nei contesti legati all’industria 4.0 e all’Internet of
Things. Allo stesso tempo però, la data economy cresce in maniera
esponenziale. Con essa il numero di dispositivi interconnessi e il suo impatto
ambientale.
Se l’ICT (Information and Communication Technologies) fosse uno Stato
sarebbe il quinto più inquinante al mondo. Attualmente le tecnologie
digitali sono infatti responsabili del 4% di tutte le emissioni di gas serra: due
volte le emissioni da attribuire al traffico aereo globale. Si prevede che nel
2025 questa percentuale crescerà all’8,5%, pari alle emissioni di tutti i
veicoli leggeri in circolazione.
L’abbattimento di questi numeri, oltre a rappresentare una necessità per
l’ambiente, può diventare un fattore centrale nella competizione
tecnologica globale.
Rifiuti digitali
Quando si pensa all’inquinamento prodotto dal digitale è inevitabile partire dai
devices che più usiamo nella nostra giornata: gli smartphone. Dall’estrazione
delle materie prime all’assemblaggio, dalla distribuzione all’utilizzo e al
trattamento di fine vita, ogni smartphone genera all’incirca 90 kg di CO2.
Per dare una scala di valori, si tratta della metà delle emissioni che si
realizzano nel giro di un anno facendo circa 20 mila chilometri con una
macchina mediamente inquinante. Considerando come ci siano 6,6 miliardi di
smartphone al mondo, è immediato capire che la produzione e lo
smaltimento di dispositivi tecnologici sia una questione chiave nel
dibattito sulla carbon footprint del digitale. Anche perché attualmente solo il
17,4% dei rifiuti elettronici al mondo (e-waste) è riciclato, con conseguente
spreco delle risorse preziose e non facilmente reperibili (terre rare) da cui
sono composti.
Politiche per incentivare l’utilizzo di dispositivi ricondizionati e riciclati
potrebbero quindi anche rappresentare un piccolo passo per la sovranità
tecnologica. Specialmente per l’Unione Europea che detiene solo il 4%
della catena di approvvigionamento globale di materie prime critiche utilizzate
nella produzione di apparecchiature digitali. Ecco perché in questo contesto
non devono essere ignorate risoluzioni del Parlamento Europeo come quella
sul diritto alla riparazione che si punta a estendere per tutto il ciclo di vita dei
prodotti, equiparando l’obsolescenza a una pratica commerciale sleale. A fine
anno, la Commissione UE dovrebbe presentare una sua proposta sul tema
che sarebbe quasi un unicum a livello mondiale. Negli Stati Uniti, a
eccezione dello Stato di New York che ha adottato il Digital Fair Repair Act, le
altre 40 proposte di legge sul diritto alla riparazione presentate lo scorso anno
in 27 Stati finora sono state bocciate.
Immateriali ma inquinanti
Ancora più inquinanti dei devices elettronici sono però i dati digitali
nonostante la loro dematerializzazione induca a pensare che i nostri
comportamenti online non abbiano un’impronta ambientale. Ormai è risaputo
che attività come il mining di bitcoin siano fortemente inquinanti. La potenza di
calcolo necessaria per ottenere un solo bitcoin consuma tanta elettricità
quanto quella usata in due anni da una famiglia americana media. E la
maggior parte di questo mining avviene in aree del mondo (come il
Kazakistan) che utilizzano soprattutto carbone per produrre elettricità.
Meno consapevolezza si ha invece sull’impronta ambientale di attività
online più comuni. Una ricerca su Google produce fino a 10 grammi di CO2
e ogni giorno ne vengono effettuate circa 8,5 miliardi. Una mail da un solo
megabyte consuma 20 grammi di CO2. Per cui sommando tutte le mail
mandate nel mondo in un anno si produce una quantità di anidride carbonica
pari a quella prodotta da 7 milioni di auto. Tutti questi dati occupano spazio
in data centers che richiedono un enorme dispendio di energia (l’1% del
consumo energetico globale) per funzionare e trasferire tali dati all’IP di un
utente ogni qualvolta lo richiede. Di conseguenza sono responsabili di circa
il 50% di tutta l’energia consumata dagli ecosistemi digitali. Una cifra
destinata ad aumentare: a livello globale, il numero di dispositivi connessi
cresce ogni anno del 10%, quello degli utenti internet del 6%.
Competizione sui centri dati
Rendere i data centers più sostenibili è una delle sfide su cui si gioca il
futuro della transizione digitale. In questo contesto, da un lato è evidente la
tendenza delle big tech americane ad autoregolamentarsi. Per esempio,
Microsoft ha annunciato un piano per passare al 100% di rinnovabili nei data
centers entro il 2025. Google ha programmato per il 2030 di liberarsi
completamente dell’energia da fonti combustibili. Mentre dall’altra parte
dell’Atlantico, l’UE punta a liberarsi dalla dipendenza dai centri dati
americani (il 90% dei dati UE sono gestiti da aziende statunitensi) in favore
dell’edge computing (micro data centers capaci di elaborare e memorizzare
dati critici localmente, una sorta di albergo diffuso per i dati) comunitario e a
impatto climatico zero.
Lo sviluppo di 10 mila nodi periferici, che quindi possano ridurre il consumo
energetico richiesto processando i dati più vicini alla fonte, è infatti uno dei
punti cardine della Bussola europea per il digitale.
In palio non c’è solo la leadership nella competizione tecnologica globale ma
anche in quella ambientale.