SUPERBONUS – Le ultime novità sul Superbonus commentate e analizzate da Giuseppe Liturri

Vi spiego il vero malus del Superbonus
Le ultime novità sul Superbonus commentate e analizzate da Giuseppe
Liturri


È finalmente arrivato anche sulle pagine del Sole 24 Ore l’allarme che
lanciammo a giugno 2021 a proposito dei crediti di imposta per i bonus edilizi.
Sono fermi 15 miliardi di crediti che nessuno vuole o può comprare e sono a
rischio 25mila imprese dell’edilizia. Da mercoledì, le nuove indicazioni
provenienti da Eurostat circa la contabilizzazione di tali interventi hanno reso
concreto il rischio che la circolazione dei crediti, attraverso plurime cessioni,
come strumento di pagamento accettato e liberatorio su base volontaria,
costringerebbe lo Stato a contabilizzare da subito come spesa pubblica
l’intero importo dei lavori autorizzati ed eseguiti. Per il solo superbonus 110%
(dati al 31 dicembre 2022) parliamo di 51 miliardi di detrazioni già maturate
che salgono a 69 miliardi, considerando le detrazioni previste a fine lavori.
Considerando anche gli altri bonus (bonus facciate, sismabonus, ecc…)
saliamo a 110 miliardi, con uno scostamento complessivo di quasi 38 miliardi
rispetto alle previsioni.
La scelta comunicata da Eurostat non deve sorprendere ed è tecnicamente
corretta e ben motivata. Sin dal giugno 2021, avevamo fatto rilevare che
Eurostat considerava provvisoriamente “non pagabili” i crediti da bonus edilizi
ma si era riservata una valutazione definitiva. Ora è giunta ad una conclusione
ineccepibile: se un credito è cedibile o riportabile negli anni per le quote non
compensate e compensabile con qualsiasi debito fiscale, allora è elevatissima
la probabilità che lo Stato sostenga effettivamente quel costo e che –
simmetricamente – il contribuente benefici di quell’agevolazione. In altre
parole, più il credito circola, più è probabile che trovi prima o poi qualcuno che
abbia dei debiti fiscali da compensare. È quindi “pagabile”. Se, invece, il
credito può essere compensato soltanto con le tasse dovute dal contribuente
per ciascun anno, è concreto il rischio che non ci siano debiti fiscali da
opporre in compensazione e che quindi la quota eccedente sia
definitivamente persa. Di conseguenza, lo Stato può contabilizzare, come ha
fatto, per quote annuali tali eventuali mancati incassi.
Il problema è che, sin dalla sua nascita, il superbonus si è caratterizzato per la
cedibilità dei crediti di imposta e quindi si è generato nel contribuente un
legittimo affidamento circa la possibilità di ottenere l’agevolazione per un
importo anche ben superiore ai propri debiti fiscali. Quindi, in caso di
eccedenza o necessità di liquidità, il contribuente poteva da subito ottenere il
beneficio, attraverso la cessione del credito. Nel novembre 2021 il governo di
Mario Draghi è entrato a gamba tesa su questo meccanismo, ponendo un
limite alle cessioni e lasciando col cerino del credito in mano migliaia di
imprese che avevano eseguito lavori, scontando direttamente in fattura
l’agevolazione al committente, ma che non trovavano più banche disposte
all’acquisto. Il successivo intervento del governo di Giorgia Meloni – col
decreto Aiuti-Quater e con la legge di bilancio – che ha portato a cinque le
cessioni complessive (di cui tre in “ambiente protetto”, cioè verso banche) e
concesso la possibilità di compensare in dieci anni, ha solo marginalmente
migliorato la situazione, che resta critica.
Che la situazione stesse volgendo al peggio per le imprese ed i contribuenti,
lo avevamo compreso il 18 gennaio leggendo la risposta scritta del Mef, a
mezzo della sottosegretaria Lucia Albano, ad un’interrogazione parlamentare.
In quel documento, si anticipavano le conclusioni della nuova sezione del
manuale di contabilità dell’Eurostat e si sottolineava che la cedibilità del bonus
ne determinava la “pagabilità” con conseguenti “impatti di finanza pubblica”.
Giunti a questo punto, è bene essere chiari, sia per il futuro che per il passato.
Chi paventa “pericoli” per i conti derivanti dalla eventuale contabilizzazione
immediata di 69 miliardi (il 3% del PIL) nella spesa pubblica e quindi nel
debito/Pil – che nel 2023 aumenterebbe dal 144,6% programmatico al 147%
circa – dovrebbe riflettere sul fatto che finora l’unico impatto di finanza
pubblica (positivo) dei bonus edilizi è stato quello di garantire almeno 1/5 della
crescita del PIL del 2022 (+3,9%). Come dimostrato in numerosi studi,
pubblicati qui, qui e qui. A costoro andrebbe ricordato che già oggi il
debito/PIL è più alto di 3 punti solo perché abbiamo contribuito ai vari Mes,
Efsf e prestiti ad altri Stati UEM. Allora nessuno si è stracciato le vesti?
Il fatto che le regole contabili determinerebbero una punta straordinaria del
debito/PIL nel 2023 (ma un minor onere negli anni successivi) è una noiosa
disputa di ragioneria dall’impatto nullo sull’economia reale. Poiché ciò che
rileva è che i lavori sono stati eseguiti ed i crediti sono maturati. L’effetto per
cassa sarà quello determinato dalla scansione annuale delle compensazioni
eseguite dai titolari dei crediti, sia originari che cessionari. Tutto il resto è noia.
Il presunto allarme dei mercati per un indicatore a cui sono molto sensibili è
un falso problema. Perché il vero problema per un investitore che compra Btp
sarebbe quello di vedere fallire migliaia di imprese e bloccare nuovamente un
settore che è appena uscito dal buio del decennio passato. Non certo quello di
guardare un numerino, agitando la minaccia dello spread. Il governo ha un
prezioso match point per rilanciare il Paese e conquistare la fiducia dei
contribuenti: faccia circolare liberamente tutti i crediti di imposta e pensi alla
crescita, non alle congetture contabili. A meno che queste non siano un alibi
(simile a quello delle frodi) per tagliare il beneficio ex-post. Allora il match
point diventerebbe un autogol.

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