ANALISI E COMMENTI – Lo spread dietro lo stop al Superbonus | Il retroscena

Lo spread dietro lo stop al Superbonus |
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I conti pubblici sono stati travolti dall’improvviso stop al Superbonus, capace di
scatenare i mercati e far innalzare lo spread. È quanto si ricava parlando con i
tecnici vicini al dossier nel governo Meloni a ridosso del day after che ha
suscitato un mare di polemiche. Dietro il blocco immediato della misura per
decreto, per il futuro e a certe condizioni per il passato, c’è non solo la
necessità di stoppare ulteriori speculazioni sulla gestione del credito ma il
rischio concreto che la spesa pubblica finisse fuori controllo.
Il problema è legato al fatto che molte regioni hanno cominciato ad acquisire
crediti fiscali derivanti dal bonus edilizio, fissato alla soglia del 110%, e questo
fattore, pur rappresentando un intento “lodevole”, raccontano sempre le
stesse fonti, avrebbe rischiato, in caso di una mancata ulteriore cessione dello
stesso, di diventare debito regionale e dunque in ultima analisi, pubblico. E
che debito, in un paese che ha oltre 2.700 miliardi di euro di indebitamento
statale complessivo.
Si ragiona che sui 110 miliardi complessivi a rischio di diventare deficit, come
da raccomandazione di Eurostat, 16 sarebbero quelli davvero problematici,
incagliati, una palla di neve in odore di diventare debito e di alimentare una
“valanga” che avrebbe causato nei conti pubblici del 2023 un buco tale da
necessitare il varo di una manovra correttiva.
Ma l’esigenza di stoppare il meccanismo del Superbonus – spiega Milano
Finanza – su cui sono avviati i confronti con le associazioni di categoria e i
sindacati, è anche legato alla prossima revisione del Patto di Stabilità che
potrebbe comportare per l’Italia una stretta fiscale, non come se tornasse di
nuovo il vincolo del 3% di rapporto deficit-pil ma qualcosa di molto vicino.
Quest’ultimo rapporto è già arrivato al 5,6% nel 2022 ed è previsto al 4,5%
quest’anno e al 3,7% nel 2024: se invece di ridursi fosse in ascesa, per via del
Superbonus, si aprirebbe un nuovo fronte di scontro con la Commissione
Europea, con riflessi sui tassi dei Btp e sugli investitori internazionali. Una
cosa decisamente da evitare, peraltro in piena fase di aumento dei tassi di
interesse.
Un terzo elemento che ha spinto il governo a fare la mossa estrema dello stop
al Superbonus che ha messo in sicurezza la situazione delle banche, come
rilevato subito dall’Abi, è anche quella di normalizzare il settore dei crediti
fiscali prima che parta la riforma fiscale che il viceministro dell’Economia,
Maurizio Leo, sta mettendo a punto. Impossibile farlo con la mina Superbonus
tra i piedi. Come risulta difficile pensare di tramutare il Superbonus in un
nuovo bonus per ottemperare alla direttiva europea sulla casa green: troppo
impegnativa la norma comunitaria e troppo invasiva per le abitazioni di milioni
di italiani – senza contare le migliaia di edifici storici – per poter pensare a
questa ipotesi.
La situazione è per questi motivi seguita in prima persona dalla premier
Giorgia Meloni e dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. I numeri sono
enormi e di diretta provenienza dai governi Conte e Draghi. Lo Stato, che
inizialmente intendeva spendere 72 miliardi, a fronte del boom di richieste,
soprattutto per il Superbonus 110, al momento ha già speso 110 miliardi (e
qualcuno dice anche più di 120), dunque 9 miliardi all’anno, mezzo punto di pil
per far fronte appunto agli sconti fiscali, con un carico per i cittadini di quasi
2.000 euro a testa.
Dei 110 miliardi quasi 60 derivano però proprio dalla cessione dei crediti,
sconti fiscali che lo Stato avrebbe dovuto erogare anno per anno (per cinque
anni) come per le detrazioni normali e che invece sono stati concessi subito, a
partire dalla prima fattura. Da qui l’idea messa in atto dal governo: azzerare la
possibilità di cedere il credito e lasciare che i contribuenti paghino il costo dei
lavori di ristrutturazione, che verranno poi loro rimborsati nei tempi previsti, il
tutto riducendo il deficit corrente. Non è da dimenticare che il meccanismo
della cessione ha contribuito a costruire una sorta di moneta parallela dei
crediti, passati di mano più volte. Una mina nella mina finanziaria.
Dal canto loro le banche (che di solito rilevano i crediti ceduti dal contribuente
a imprese edili e fornitori), come spiegato sul numero di Milano Finanza in
edicola, da mesi non sono più in grado di scontarli perché hanno esaurito la
capienza fiscale e al contempo facevano fatica a cederli ulteriormente.
Dunque, sono salve, perché il cerino è passato in mano di altri.
Soluzioni? Per ora è difficile dirlo, come sembra per ora solo sullo sfondo
l’idea della cartolarizzazione dei crediti fiscali, magari coinvolgendo la Cdp di
Dario Scannapieco, almeno fin quando non sarà fatta una vera due diligence
su tutta la materia per evitare la creazione di subprime made in Italy. Di certo
c’è che il governo si trova ad affrontare un problema che coinvolge anche lo
stato periferico, col rischio di ampliare il contagio.
Per uscire dall’impasse qualche settimana fa alcuni enti locali (Regione
Piemonte, Regione Sardegna, Regione Puglia, provincia di Treviso, mentre
Regione Lombardia aspettava solo il post elezioni per partire) stavano infatti
iniziando ad acquistare i crediti fiscali col rischio però, alla luce delle nuove
regole di classificazione di Eurostat, di far esplodere il proprio debito e poi
quello dell’Italia, da anni nel mirino delle agenzie di rating. Un rischio che
Meloni non ha voluto correre, con tutte le controindicazioni del caso legate
all’economia reale e al settore dell’edilizia.

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