Per la sovranità digitale europea serve un circolo virtuoso

Per la sovranità digitale europea serve un
circolo virtuoso


di Stefano da Empoli

L’Europa deve bilanciare regolamentazione e investimenti, evitando di
essere artefice di un futuro digitale al ribasso. L’intervento del
presidente I-Com Stefano da Empoli, in occasione della presentazione
del paper PromethEUs sulla sovranità digitale europea e i rapporti con
gli Usa
Come un prisma che si rivela mutevole a seconda della prospettiva con il
quale lo si osserva, sono molte le chiavi di lettura possibili del concetto di
sovranità digitale. Qualche ispirazione verso la giusta direzione con il quale
guardarlo l’ha data nei giorni scorsi il premier Mario Draghi che, nella
conferenza stampa congiunta con il presidente francese Emmanuel Macron
tenutasi a valle della firma del trattato del Quirinale, ha caratterizzato la
sovranità europea come la “capacità di indirizzare il futuro come vogliamo
noi”.
Nel campo digitale, la facoltà di essere artefici del proprio destino può essere
conquistata con due strumenti: le regole e gli investimenti tecnologici. Ma solo
una loro combinazione equilibrata può produrre una sovranità digitale a
vantaggio dei cittadini europei.
Molto si è parlato in questi anni del cosiddetto “Brussels effect”, il titolo di un
fortunato libro di Anu Bradford, giurista di origine finlandese di stanza alla
Columbia University di New York. Attraverso la definizione di un quadro
regolamentare robusto e ambizioso, l’Unione europea è riuscita a imporsi
come il principale rule-maker globale, influenzando la legislazione degli altri
Paesi e inducendo di fatto aziende extra-europee a tenerne conto non solo
per i prodotti e servizi venduti nel vecchio continente ma anche altrove.
Il caso di scuola è il GDPR, il regolamento europeo della privacy, approvato
nel 2016 ed entrato in vigore nel 2018. Uno dei principi di base, quello della
“privacy by design”, dunque già incorporata in un prodotto o servizio al
momento del suo concepimento, è diventato in pochi anni il mantra di
moltissime aziende statunitensi e, se è vero che gli Usa non hanno ancora
una legge federale sulla privacy, la California, che è sede di gran parte delle
grandi imprese tecnologiche statunitensi, ne ha approvata una molto simile.
Nonostante in Europa siano in molti a crogiolarsi della potenza del Brussels
effect, la sovranità digitale esercitata a mezzo esclusivo o prevalente di regole
è tuttavia un’anatra zoppa. Per due motivi principali.
In primo luogo, se non è accompagnata da una maggiore competitività
digitale, conseguente a maggiori investimenti pubblici e privati, rischia di
tradursi in un mero potere interdittivo e dunque di sfociare in un’arma
protezionistica, a svantaggio di consumatori e imprese.
Inoltre, la costruzione di sistemi regolatori sempre più stringenti e complessi
rischia di penalizzare paradossalmente di più le aziende europee,
mediamente più piccole, rispetto ai colossi statunitensi e cinesi che
dispongono di maggiori risorse, umane e finanziarie, per adattarsi al nuovo
quadro.
È questo il rischio che corrono provvedimenti come il Digital Services Act
(Dsa), il Digital Markets Act (Dma) e l’Artificial Intelligence Act (AI Act), i cui
testi proposti nello scorso anno dalla Commissione europea sono attualmente
in discussione e dovrebbero essere approvati tra il 2022 e il 2023.
Una delle ragioni che hanno spinto la Commissione a intervenire con
provvedimenti tanto ambiziosi è stato il rischio di frammentazione del mercato
interno, a fronte di interventi sempre più frequenti da parte degli stati membri.
Così come naturalmente l’esigenza di porre mano ai rischi certamente
presenti e talvolta già acclarati delle nuove tecnologie. Due fattori
assolutamente ineccepibili, rispetto ai quali la Commissione si è giustamente
mossa.
Tuttavia, se da un lato il nuovo quadro normativo è necessario per affrontare
alcune criticità derivanti dalla rapida evoluzione del mercato, dall’altro deve
stare attento a non creare conseguenze inintenzionali, soffocando
l’innovazione e, paradossalmente, la stessa concorrenza. Troppi lacci e
lacciuoli rischiano di ingessare il mercato così come la proibizione o una
limitazione troppo stringente di importanti innovazioni, come ad esempio la
pubblicità mirata e i sistemi di raccomandazione, auspicata da molte parti in
Parlamento europeo.
Una dimostrazione perfetta di cosa non va in certe declinazioni della sovranità
digitale: per colpire le imprese americane oppure per sublimare il concetto di
privacy, oltre i rischi effettivi, si vietano o si depotenziano strumenti innovativi
che aumentano il benessere sia delle imprese che dei consumatori. E che, ad
esempio, evitano a questi ultimi di essere inondati da pubblicità del tutto inutile
(o quantomeno ne riducono l’ammontare). Allo stesso tempo, alcuni obblighi o
proibizioni verso i cosiddetti “gatekeeper”, cioè le imprese con un forte potere
di mercato nei diversi segmenti dell’economia digitale individuati dal Dma,
devono essere contemperati con il legittimo interesse degli utenti a veder
proteggere l’integrità, la sicurezza e la qualità dei servizi acquistati.
Per mantenere un necessario equilibrio tra i diversi interessi in campo, è
dunque necessario prevedere per il Dma (ma il principio vale anche per gli
altri provvedimenti in campo) un dialogo regolatorio sufficientemente articolato
e dinamico tra la Commissione e i gatekeeper ma più in generale gli
stakeholder, naturalmente secondo modalità il più possibile trasparenti.
Ma, come sostiene il paper dal titolo “The multisided path to European digital
sovereignty and the future of EU-US relations”, pubblicato da PromethEUs,
network di think tank sud-europei coordinato dall’Istituto per la Competitività
(I-Com), per evitare che la sovranità digitale europea conduca a non
auspicabili posizioni protezionistiche, un ruolo fondamentale potrà essere
esercitato da nuovi forum di dialogo a livello internazionale come il Trade and
Technology Council, inaugurato alla fine di settembre a Pittsburgh da Stati
Uniti e Unione Europea. Un percorso di cui il paper non trascura le tante
difficoltà, derivanti da una storia e una posizione molto diversa nell’economia
digitale.
L’ambizione dell’Europa deve tuttavia essere quella di acquisire un maggior
peso sulla scena globale, anche grazie a una proficua collaborazione con altre
aree e Paesi del mondo, a partire dagli Stati Uniti, indiscutibilmente il nostro
principale alleato, oltre a essere la principale economia del pianeta e il leader
assoluto nelle tecnologie digitali. D’altronde, a scuola capita a tutti di trovarsi
con un compagno più bravo. Ma di certo non aiuta né lui né noi estrometterlo.
Una soluzione decisamente migliore è quella di imparare dai suoi lati migliori e
magari di prepararsi insieme in vista della prossima interrogazione. Fuor di
metafora, oltre alle regole, occorre tenere alta l’attenzione sugli investimenti,
nella duplice dimensione quali-quantitativa. In altre parole, per realizzare una
sovranità digitale di successo, occorre creare un circolo virtuoso tra
regolamentazione e investimenti. Evitando di essere artefici di un futuro
digitale europeo al ribasso.

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