ANALISI E COMMENTI – Contrastare la denatalità: come ha fatto la Germania

Contrastare la denatalità: come ha fatto
la Germania

A metà degli anni 2000 i tedeschi avevano dei tassi di fertilità bassissimi,
ma sono riusciti a farli risalire fino a tornare in linea con la media
europea. In che modo ci sono riusciti? Facendo tornare le donne nel
mercato del lavoro il prima possibile e incentivando la conciliazione
vita-lavoro
di Ester Bonomi
C’è un Paese in UE in cui la denatalità è stata un problema per molto tempo,
anche più che in Italia, ma che dopo una serie di importanti riforme è riuscito a
far risalire i tassi di fertilità sopra la media europea. Stiamo parlando della
Germania: secondo l’OCSE, se nel 2006 una donna tedesca aveva in media
1,33 figli, nel 2016 questo numero è salito fino a 1,59. Gli ultimi dati disponibili
riguardano il 2019, in cui si attesta un tasso di fertilità pari a 1,54, in leggera
diminuzione ma comunque in linea con la media europea.
Dopo aver spiegato perché fare pochi figli sia un problema per il welfare di
uno Stato e di come, in un Continente sempre più vecchio, la Francia sia
riuscita a mantenere tassi di fertilità superiori alla media europea grazie a
oculate scelte politiche, in questo articolo vi raccontiamo, appunto, il caso
della Germania.
La domanda che ci poniamo è: perché la natalità tedesca ha avuto una
crescita così consistente (salvo il leggero calo dell’ultimo periodo), mentre
quella italiana no? La risposta è complessa ma, come ci hanno spiegato
diversi esperti che abbiamo interpellato, è certo che l’investimento fatto dalla
Germania negli ultimi 20 anni sulle politiche per la famiglia ha contribuito a
rendere le famiglie tedesche più propense ad avere figli.
Il cambio di paradigma
Dalla prima metà degli anni 2000, in Germania si è assistito
all’implementazione di una serie di riforme parte di un processo più ampio che
Martin Seeleib-Kaiser, professore di politiche pubbliche comparate
all’Università di Tubinga, ha definito “la duplice trasformazione dello Stato
sociale tedesco” (Bleses e Seeleib-Kaiser 2004). “Si tratta di un processo che
ha previsto, da un lato, il restringimento e la privatizzazione delle politiche
pensionistiche, dall’altro l’espansione delle politiche per la famiglia a partire
dalla fine degli anni ‘80” spiega il docente.
Secondo Michaela Kreyenfeld, professoressa di sociologia alla Hertie School
di Berlino, in sostanza le riforme della prima metà del 2000 hanno accelerato
un processo che “era già sul tavolo da tempo”. L’investimento sulle politiche
per la famiglia era già cominciato, ma negli anni 2000 le riforme dei governi
Schroeder e Merkel hanno dato una spinta in avanti al processo, in particolare
tra il 2005 e il 2009, quando al Ministero della famiglia c’era Ursula Von der
Leyen. “È stata lei ad avere il potere politico e il carisma per portare le riforme
in Parlamento” continua Kreyenfeld, che spiega come l’attuale Presidente
della Commissione Europea avesse usato proprio l’argomento dei bassissimi
tassi di natalità per convincere il governo a implementare le misure.
Queste politiche hanno costituito un vero e proprio cambio di paradigma nel
modo di pensare la famiglia. “Si è passati dal modello male breadwinner (in
cui l’uomo è l’unica fonte di reddito e la donna si occupa della cura dei figli e
della gestione della casa) all’adult worker model” racconta la professoressa
Sigrid Leitner, sociologa e docente di politiche sociali all’Università delle
scienze applicate di Colonia. L’adult worker model è stato ampiamente
promosso non solo dalla Germania, ma anche dall’Unione Europea, e
sostiene che ogni persona in grado di lavorare dovrebbe farlo, a prescindere
dalle responsabilità di cura che potrebbe avere. Secondo Leitner, c’è però
stato anche un altro cambio di paradigma che riguarda la genitorialità: “Non è
più solo la madre a prendersi cura della famiglia, anche i padri sono sempre
più ingaggiati nell’impegno”.
Ma a quali innovazioni hanno portato queste riforme e quali sono attualmente i
benefici di cui godono le famiglie tedesche? Scopriamolo analizzando i
principali strumenti utilizzati da queste politiche: il sistema di congedi, i servizi
di cura per l’infanzia e i trasferimenti monetari legati alla presenza dei figli.
I congedi: uno strumento sempre più paritario
Oltre a un congedo di maternità obbligatorio (Mutterschutz) di 14 settimane
con una compensazione pari alla media del salario degli ultimi 3 mesi, nel
2007 in Germania viene introdotto l’Elterngeld, cioè un congedo parentale di
12 mesi retribuito al 67% del reddito fruibile da entrambi i genitori fino al 100%
per le famiglie meno abbienti, con una premialità che lo porta a 14 mesi se
l’altro genitore (solitamente il padre) ne prende almeno una parte.
Originariamente il sistema di congedi prevedeva che la madre potesse
astenersi dal lavoro fino al terzo anno di età dei figli, con una compensazione
monetaria a somma fissa solo fino ai 2 anni soggetta a prova dei mezzi: un
congedo lungo e scarsamente compensato, che rendeva più vantaggiosa la
sua fruizione completa ritirandosi dal mercato del lavoro.
L’Elterngeld ha rivoluzionato questo sistema, perché mirava a sostenere
l’occupazione delle donne attraverso una redistribuzione più equa delle
responsabilità familiari. “L’idea di far rientrare le madri nel mercato del lavoro il
prima possibile ha avuto grande risalto mediatico e politico” spiega
Kreyenfeld.
I servizi per la prima infanzia: un diritto per i bambini
Per molti anni, già prima della riunificazione tedesca avvenuta nel 1990, la
domanda di servizi di cura per l’infanzia accessibili è andata crescendo in
Germania. La richiesta era particolarmente forte nella parte occidentale del
Paese, più ricca di quella orientale, ma con meno servizi di questo tipo. Così,
nel 2004 fu lanciato un piano straordinario quinquennale per potenziare i
servizi di cura finanziato da 4 miliardi, poi aumentati a 5,4 miliardi tra il 2007 e
il 2014. Inizialmente c’era stata una certa resistenza a spendere i fondi del
Governo federale da parte di alcuni Länder, gli Stati federati in cui è divisa la
Germania, ma nel 2013 una legge ha introdotto il diritto legale per i bambini di
avere accesso ai servizi a partire dal primo anno di età, fatto che ha costretto i
Länder a garantire un numero adeguato di asili nido. “Attualmente sono gli
Stati federati e le municipalità ad essere responsabili per la fornitura dei
servizi, la loro qualità e i prezzi. Volendo, possono anche fornire ulteriori
servizi e infrastrutture oltre a quelli previsti dalla legge” racconta Birgit
Pfau-Effinger, professoressa di Sociologia del cambiamento culturale e
istituzionale dell’Università di Amburgo.
Il risultato è stato un aumento del ricorso ai servizi di cura da parte delle
famiglie: nel 2019 (il dato è di prima della pandemia, che ha inevitabilmente
portato a un ridimensionamento dei servizi in tutta Europa) il 31,3% dei
bambini sotto i 3 anni ha usufruito di almeno un’ora di servizi pubblici per
l’infanzia, contro il 26,3% italiano.
La Germania è quindi molto vicina a raggiungere “l’obiettivo di Barcellona” del
2002 fissato dal Consiglio europeo, cioè di arrivare ad avere un terzo di
bambini sotto i 3 anni che frequentano l’asilo, ma è ancora sotto la media
europea (pari al 35,3%) e lontana da Paesi come la Danimarca in cui quasi
due bambini su tre sotto i 3 anni vanno all’asilo.
I trasferimenti legati alla presenza dei figli
Il Kindergeld, cioè l’assegno universalistico legato alla presenza dei figli per
tutte le famiglie, a prescindere dal reddito, era stato già introdotto dagli anni
‘50, ma è aumentato nel corso del tempo.
Dal 1° gennaio 2021, è pari a 219 euro al mese per il primo e secondo figlio,
225 euro per il terzo e 250 euro per ogni ulteriore figlio. È anche presente un
assegno supplementare per i figli a carico (Kinderzuschlag) per i genitori il cui
reddito mensile non è sufficiente a coprire interamente il fabbisogno della
famiglia; l’importo massimo è di 185 euro mensili per figlio. Le famiglie che lo
ricevono sono inoltre esonerate dal pagamento delle spese per asili e servizi
di cura.
C’è poi il Bildungspakete, un “pacchetto” di erogazioni che consentono ai figli
di famiglie che ricevono il Kinderzuschlag di partecipare a diverse attività
sociali e culturali come gite, attività musicali e sport. In più, esistono delle
detrazioni fiscali legate a specifiche spese per i figli fino a 14 anni nei nuclei in
cui entrambi i genitori lavorano, fino ai due terzi dei costi sostenuti.
La solidità economica come base sicura
Le politiche per la famiglia tedesche, insomma, promuovono un modello di
conciliazione tra vita lavorativa e responsabilità familiari che coinvolge in
maniera paritaria entrambi i genitori. Questo è l’esito di un processo durato
anni, frutto di quel cambio di paradigma che, secondo alcuni autori (Erler
2011; Pfau-Effinger 2012; Jensen et al. 2017), ha costituito per la Germania
una “svolta nordica”, in quanto si sarebbe preso a modello il sistema
scandinavo di politiche di welfare. “Il modello nordico prevede un forte
intervento dello Stato, sia nelle politiche che nella spesa pubblica” spiega
Pfau-Effinger.
La scelta dello Stato tedesco di investire in maniera sistemica sulle famiglie
per risolvere il problema della natalità ha seguito una logica ben precisa:
aumentare l’occupazione femminile agevolando il ritorno delle madri nel
mondo del lavoro il prima possibile. Ciò è stato fatto, da una parte, tramite la
condivisione delle responsabilità di cura con i padri, dall’altra sostenendo le
famiglie con sussidi e servizi accessibili a tutti.
L’efficacia della soluzione sembra essere confermata anche dagli studi
dell’OCSE (D’Addio & D’Ercole, 2005), che mostrano come nei Paesi più
sviluppati vi sia una correlazione positiva tra occupazione femminile e tassi di
fertilità. Anche se tracciare una causalità diretta tra queste due dimensioni non
è possibile, è indubbio che in Germania i risultati ottenuti portano a pensare
che esista un nesso tra l’implementazione delle misure di conciliazione e
l’aumento consistente dell’occupazione femminile, soprattutto tra le madri con
i figli da uno a tre anni (Leitner 2020).
Ma come possiamo spiegare questo fenomeno? Secondo Kreyenfeld, tutto
ruota attorno al fatto che non sia più possibile che sia solo un membro della
famiglia a lavorare, perché non garantisce abbastanza sicurezza economica:
“La base delle famiglie sta cambiando: la stabilità economica è il fattore
preferenziale per avere figli”. Ma questa stabilità non è possibile senza il
lavoro femminile. “Abbiamo bisogno della forza lavoro femminile per il futuro”
sostiene Leitner in questo senso.
Investire per aumentare l’occupazione delle donne diventa, insomma, una
questione prioritaria. Ma l’Italia, a cui dedicheremo un approfondimento nelle
prossime settimane, è pronta per farlo? “Sostenere queste politiche è molto
costoso. In Germania c’è stato un forte dibattito riguardo la spesa pubblica per
le riforme, soprattutto per quella sui congedi. Nemmeno in Francia c’è un
congedo parentale così lungo e ben retribuito per entrambi i genitori” riflette
Kreyenfeld. “L’Italia è stata molto più colpita della Germania sia dalla crisi
economica del 2008 che dalla pandemia. Bisogna quindi capire se sia in
grado di sostenere delle riforme così ingenti dal punto di vista economico”.
Per approfondire
● Bleses P. e Seeleib-Kaiser M. (2004), The dual transformation of the
German welfare state, New Perspectives in German Studies, vol. 192,
London: Palgrave Macmillan.
● D’Addio A. C. e Mira d’Ercole M. (2005), Trends and Determinants of
Fertility Rates: The Role of Policies, OECD Social, Employment and
Migration Working Papers, 27, Paris, O. Publishing.
● Erler D. (2011), Germany: taking a Nordic turn?, In “The politics of parental
leave policies: Children, parenting, gender and the labour market”, Policy
Press.
● Jensen P. H., Och R., Pfau-Effinger B., Møberg R. J. (2017), Explaining
differences in women’s working time in European cities, European
Societies, 19, 2: 138-156.
● Leitner S. (2020), German Family Policy since Reunification, in Lisa Pine
(Hg.), The Family in Modern Germany. London: Bloomsbury, 201-228.
● Pfau-Effinger B. (2012), Women’s employment in institutional and cultural
context, International Journal of Sociology and Social Policy, 32, 9,
530-543.
● Ufficio per la parità di trattamento dei Lavoratori dell’UE, Famiglia e
bambini.

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