Quei tredici brevissimi ma intensi anni
che ci separano dal 2035
La decisione europea di bloccare in data certa la produzione di
auto con motore a scoppio ha messo la transizione ecologica al
centro della scena. Anche l’Italia in questi giorni presenta i suoi
programmi, con pregi e difetti
di Donato Speroni
Vi ricordate che cosa accadde nel 2009 nel nostro Paese? Vi rinfresco la
memoria: il terremoto dell’Aquila e l’esplosione dei vagoni cisterna alla
stazione di Viareggio, Silvio Berlusconi colpito al capo con una statuetta in
Piazza Duomo a Milano, la morte di Mike Bongiorno e Susanna Agnelli… Il
sito San Marino fixing pubblica una puntigliosa cronologia annuale, dove per
quell’anno i fatti negativi prevalgono sulle notizie liete, ma non è certo colpa
degli estensori nella Repubblica del Titano.
Il punto che mi preme è un altro. Tranne forse per i più giovani che non ne
hanno memoria diretta, questi avvenimenti nel nostro ricordo sembrano
ancora molto vicini, eppure sono passati tredici anni.
È la stessa distanza che ci separa dal 2035, anno in cui l’Unione europea ha
deciso che non si potranno più produrre auto con motore a scoppio. In
poco più di un decennio dovremo assistere a una rivoluzione gigantesca, dalle
infrastrutture (colonnine di ricarica per le auto elettriche diffuse in ogni comune
europeo) all’impatto sull’automotive con centinaia di migliaia di posti di lavoro
a rischio in tutta Europa perché la manifattura di un’auto elettrica è molto più
semplice, anche se alcune componenti come le batterie le rendono molto
costose. E ancora: un forte impulso alle energie rinnovabili (non avrebbe
senso potenziare le auto elettriche se poi si dovessero alimentare con energia
proveniente da carburanti fossili); un vero e proprio sconvolgimento degli
equilibri produttivi globali, perché la Cina, che si parli di batterie o di pannelli
solari, sembra molto più avanti dell’industria europea.
Il voto sull’auto elettrica ha spaccato il Parlamento di Strasburgo, anche
all’interno di diversi gruppi parlamentari, e subito sono cominciate le proteste,
le denunce, ma anche le giuste preoccupazioni, per gli effetti di questa
accelerazione della transizione ecologica.
Chi come noi pensa che esiste un obiettivo primario (salvare il Pianeta e
l’umanità dalla crisi climatica con una transizione che non lasci indietro
nessuno), e che tutte le altre scelte (e cioè gli adattamenti del sistema
economico, fiscale e sociale) sono variabili dipendenti da questo obiettivo, non
può che approvare questa accelerazione, se di accelerazione si tratta (se ne
parlava da tempo!); semmai dobbiamo invitare tutti i protagonisti, anziché fare
sterili polemiche di retroguardia, a una riflessione per valutare il percorso da
compiere e i punti di debolezza e di forza, vulnerabilità e resilienza, per
realizzare quella rivoluzione che non possiamo evitare.
L’aspetto positivo di questo dibattito è che dopo molte chiacchiere sulla
sostenibilità, una parola che ha invaso la comunicazione pubblicitaria tanto da
venire a noia, finalmente si parla di iniziative concrete, si dà la misura dei
cambiamenti e, diciamolo, dei sacrifici che si dovranno affrontare per la
transizione ecologica.
Non sarà facile. È possibile che in prospettiva questa rivoluzione non solo ci
dia cieli più puliti e mari meno minacciosi, ma anche più lavoro e benessere
collettivo. Ci sono autorevoli studi che ce lo dicono, invitando a investire di più,
in tutto il mondo, per accelerare il processo. Ma sappiamo che il passaggio
comporta rischi sociali e politici, che ci saranno disoccupati da riconvertire o
da sussidiare, interi Stati impoveriti per il calo delle risorse dalla estrazione dei
fossili, per non parlare degli effetti comunque inevitabili dei processi climatici
già in atto: migrazioni, violenze per l’acqua (come la strage di questa
settimana in Nigeria, per l’accentuarsi del conflitto tra pastori Fulani
musulmani e agricoltori Yoruba cristiani, dovuta in realtà all’inaridirsi delle
terre). Insomma, la transizione ecologica non sarà un pranzo di gala, come
abbiamo scritto più volte, e il nostro compito come organizzazione di punta
della società civile è quello di spiegare perché la transizione è inevitabile,
premere sui politici contro i ritardi, vigilare sulle conseguenze per le fasce più
deboli della popolazione.
Per dare concretezza a questa azione è molto importante il costante
monitoraggio dei dati sui 17 Obiettivi dell’Agenda 2030. La nuova analisi
dell’ASviS sul posizionamento dell’Italia rispetto agli altri Paesi dell’Ue è stata
presentata dal presidente dell’Alleanza, Pierluigi Stefanini, nel corso di un
incontro a Bologna. I dati relativi al 2020, anno di inizio della pandemia in
Europa, mostrano un preoccupante deterioramento della posizione italiana su
molti Goal.
In ogni caso, non possiamo che rallegrarci del fatto che lo sviluppo sostenibile
(e l’Agenda 2030 che ne detta i primi passi) abbia conquistato il centro della
scena. Da segnalare anche un altro evento, poco seguito dai media, ma
importantissimo: la riunione di Bonn attualmente in corso per raggiungere un
accordo politico sugli impegni da assumere in vista della Cop 27 sul clima
che si terrà a novembre a Sharm El-Sheikh. Sull’andamento di queste
trattative per ora si sa poco.
Anche in Italia c’è un grande fervore di iniziative, talvolta con qualche difficoltà
per individuare il filo che le collega. Proviamo a riassumere.
Nel giorno di uscita di questa newsletter (venerdì 10 giugno) il governo ha
inviato all’Onu la nuova Voluntary national review (Vnr), cioè la
comunicazione su quanto è stato fatto e quanto è in programma per rispettare
gli impegni assunti dall’Italia in esecuzione dell’Agenda 2030 sottoscritta nel
FONTE – ASVIS