I giovani, il lavoro e la demonizzazione
delle misure di contrasto alla povertà
di Carlo Canepa
«Questo è l’ultimo post che dedichiamo a questo genere “giornalistico”»,
scrivevamo esattamente due anni fa, nel 2019, in un articolo intitolato “Il kit
definitivo per contrastare il format pseudo-giornalistico ‘Il lavoro c’è, ma i
giovani non vogliono lavorare’”. Ma non abbiamo saputo resistere: nelle ultime
settimane troppi articoli di quotidiani nazionali hanno riportato di moda la
narrazione secondo cui in Italia ci sarebbero a disposizione centinaia di
migliaia di posti di lavoro liberi e che a mancare sarebbero i lavoratori,
soprattutto giovani.
Le cause di questo fenomeno? Secondo molti imprenditori e politici – tra cui
Vincenzo De Luca e Stefano Bonaccini, presidenti Pd delle regioni Campania
ed Emilia-Romagna – la colpa è di provvedimenti come il reddito di
cittadinanza, che incentiverebbero i disoccupati a rimanere sul «divano»,
piuttosto che – tradotto in parole povere – rimboccarsi le maniche e lavorare.
La narrazione del “I lavori ci sono, mancano i lavoratori” va avanti da tempo
nel nostro paese e ogni anno, soprattutto con l’arrivo dell’estate, si arricchisce
di nuove sfumature. Questa versione circolava prima che esistesse il reddito
di cittadinanza; se ne è parlato dopo che è stato introdotto il reddito di
cittadinanza; e se ne parla ora che, oltre il reddito di cittadinanza, c’è stata
una pandemia e sono state adottate altre misure per evitare un vertiginoso
aumento della povertà.
Ma perché, numeri alla mano, questa narrazione – in veste “Estate 2021
post-COVID” – non sta in piedi? Quali sono gli elementi su cui si dovrebbe
concentrare il dibattito, a iniziare dalle politiche attive dal lavoro, dove il nostro
paese è ancora troppo indietro? Cerchiamo ancora una volta di fare un po’ di
chiarezza: non promettendo “una volta per tutte”, ma almeno fissando alcuni
punti-guida, con l’aiuto delle statistiche ufficiali e degli esperti.
Quanti posti di lavoro liberi ci sono davvero?
Partiamo da un primo tema, quello sulla disponibilità dei posti di lavoro. Il 9
giugno un articolo di Repubblica titolava: “Riparte l’occupazione con 560 mila
posti liberi. Ma mancano i lavoratori”. «Per Unioncamere nel solo mese di
giugno ci saranno 560 mila nuovi contratti, meglio che due anni fa, prima della
pandemia. E alla fine di agosto si arriverà a 1,3 milioni», si legge nell’attacco
del pezzo. Come vengono calcolati questi numeri e quanto sono affidabili?
L’Unione italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura (Unioncamere) periodicamente pubblica dei bollettini, realizzati
insieme a l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), in cui
quantifica quante sono le opportunità di lavoro offerte dalle imprese in Italia.
Secondo il bollettino di giugno 2021, in questo mese sarebbero previste oltre
560 mila «entrate» tra gli occupati, di cui oltre 167 mila riguardanti i giovani.
Queste cifre però vanno prese con molta cautela. Raccolgono infatti le
intenzioni dichiarate dalle imprese, e non le vere e proprie posizioni lavorative
aperte.
Per farsi un’idea più fondata su quanti sono i posti di lavoro liberi in Italia,
bisogna guardare le statistiche pubblicate da Istat, che fanno riferimento alle
reali ricerche di personale avviate dalle aziende e che utilizzano una
metodologia condivisa a livello europeo. Secondo i dati più aggiornati
(pubblicati lo scorso 18 maggio), nei primi tre mesi del 2021 la percentuale di
posti vacanti sul totale degli occupati in Italia era di circa l’1%: un numero pari
a circa 230 mila posti di lavoro.
«Si può obiettare che questo non è un numero da poco, ma è comunque
lontano dalla stima del “milione di posti di lavoro liberi” che ogni tanto circola
sui giornali. In più, un 1% di posti vacanti non segnala nulla di particolarmente
strano rispetto al passato ed è una delle percentuali più basse a livello
europeo», ha spiegato a Valigia Blu Andrea Garnero, economista del lavoro
dell’Ocse, ora in sabbatico di ricerca. «In generale, è normale che esistano dei
posti vacanti, anche in presenza di disoccupazione. Non fosse altro perché
quando uno perde il lavoro non ha al minuto stesso un altro lavoro e perché
quando uno apre una posizione di lavoro non trova subito chi assumere. È
fisiologico che ci siano sempre dei posti vacanti e l’1%, in termini comparativi,
non rappresenta nulla di sconvolgente».
Un articolo pubblicato a febbraio su lavoce.info, scritto dall’esperto in
sociologia del lavoro Francesco Giubileo, ha inoltre evidenziato che, in sei
mesi di indagine su oltre 300 mila imprese contattate, i navigator (le figure che
aiutano i percettori del reddito di cittadinanza a trovare un’occupazione) hanno
individuato poco tempo fa al massimo 40 mila opportunità occupazionali. Un
dato, seppur parziale, ben lontano dalle centinaia di migliaia di posti di lavoro
annunciati periodicamente sui giornali.
Che cosa sta succedendo con la ripresa
Mettere in chiaro questi numeri non vuol dire sminuire la possibilità che nel
periodo attuale, con le ripartenze dopo le chiusure e l’arrivo della stagione
estiva, diverse attività – come quelle della ristorazione e del turismo –
fatichino davvero a trovare nuovi dipendenti. Ma, come vedremo tra poco,
questo non ha a che fare – salvo possibili rari casi isolati – con sussidi come il
reddito di cittadinanza, quanto ad altre ragioni, alcune delle quali strutturali.
«È probabile che quest’anno ci siano stati alcuni fattori che hanno un po’
cambiato le carte in tavola rispetto agli anni scorsi. Innanzitutto, c’è stata
molta incertezza negli ultimi mesi, quindi probabilmente le imprese hanno
aspettato a programmare le assunzioni, poi la situazione si è sbloccata e si è
creato una sorta di “collo di bottiglia”, con un’incapacità di rispondere
all’improvvisa richiesta di assunzioni», ha sottolineato a Valigia Blu Francesco
Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, un’associazione che promuove
studi e ricerche di lavoro. «Il secondo fattore che ha contribuito al contesto
attuale è l’assenza nel nostro paese di un sistema di servizio per il lavoro che
aiuti a fare un efficace incontro tra la domanda e l’offerta. Tante offerte di
lavoro, soprattutto per gli impieghi meno qualificati, sono ambigue, e magari
non vengono riportate nei portali ufficiali di ricerca del lavoro, perché offrono
pochi euro a fronte delle tante ore di lavoro richieste».
Già in passato, in diversi approfondimenti, Valigia Blu aveva mostrato come
dietro le lamentele di diversi imprenditori, che accusavano i giovani di non
voler lavorare, ci fossero in realtà annunci di lavoro con stipendi bassi, orari di
lavoro elevati e non in linea con la paga, e pochi, se non zero, diritti.
Al tema dei salari bassi – «e fermi da oltre vent’anni in Italia», come ci ha
ricordato Garnero – si aggiunge la questione delle competenze. Nel dibattito
specifico di questi giorni, può essere che le imprese del settore turistico, con
una veloce riapertura delle attività, non riescano immediatamente a riempire i
posti di lavoro liberi proprio per l’assenza di competenze specifiche tra i
candidati. D’altronde, mica si diventa in pochi giorni receptionist o cuochi. Più
in generale, il mismatch di competenze – ossia il divario tra le competenze
ricercate da chi offre lavoro e da chi lo chiede – è un problema che abbiamo
da anni, non solo adesso. «L’Italia ha sia lavoratori sottoqualificati sia una
bassa domanda di competenze», ha spiegato a Valigia Blu Garnero. «C’è un
equilibrio al ribasso, dove il 6% degli italiani ha competenze insufficienti per le
mansioni che deve svolgere, il 18% possiede un titolo di studio inferiore
rispetto a quello richiesto dalla sua professione, ma sappiamo anche che il
35% lavora in un settore che non corrisponde alla sua area di studio, in
particolare per le materie umanistiche. Una grossa fetta delle imprese è poi
gestito a livello famigliare, con pratiche manageriali non delle più innovative e
al passo con i tempi».
Tornando alla questione di questi giorni, è interessante sottolineare quanto
scritto di recente da Mario Sossi, fino al 2019 direttore generale del Centro
studi, ricerche e formazione per i manager del terziario (Cfmt), sul suo sito
personale: «Occorre considerare che non basta schiacciare un pulsante per
far ripartire la macchina quando hai tenuto migliaia di persone fuori sia da un
meccanismo formativo che di lavoro sostenendo però, questo periodo, con
aiuti pubblici. Cosa mai avvenuta in passato. È un mondo che si deve
riallineare ma che non segue i colori e i tempi della ripresa. Più che migliaia di
persone che si accontentano del reddito di cittadinanza innanzitutto vedo il
rischio che forme perniciose di lavoro nero possano riprendere quota».
I numeri sul reddito di cittadinanza
Ancora una volta, nelle ultime settimane proprio il reddito di cittadinanza è
finito sul banco degli imputati, colpevole, secondo molti politici e imprenditori,
di disincentivare le persone dal cercare un lavoro o accettare i nuovi impieghi
sbloccati con le riaperture.
Non è nulla di nuovo. Forse in molti si ricorderanno la storia di Domenico
Pascuzzi, sindaco di Gabicce nelle Marche, che a giugno 2019 – esattamente
due anni fa – incolpava il reddito di cittadinanza di essere responsabile
dell’incapacità di trovare lavoratori stagionali. Una storia prontamente ripresa
anche dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, che su Twitter aveva
definito il reddito di cittadinanza «una misura sbagliata economicamente ma
soprattutto diseducativa». Una storia poi smontata da Valigia Blu.
In generale contro il reddito di cittadinanza è ormai diffusa una
demonizzazione, che si inserisce in un discorso complessivo che ha radici
ben lontane nel passato. «Dagli anni Settanta si è costruita una lotta contro i
sussidi, soprattutto quando si parla di sussidi ai poveri. Da Reagan e
Thatcher, negli ultimi cinquant’anni ci sono stati forti politiche di
smantellamento di sussidi che all’inizio erano permanenti e poi sono diventati
temporanei, e di riduzione del numero di persone che possono avervi
accesso», ha spiegato a Valigia Blu Francesca Coin, docente in sociologia
alla Lancaster University, nel Regno Unito. «Tanto più il reddito di cittadinanza
si inserisce in questo contesto, perché va a intaccare un principio morale, ma
anche economico, basilare in una struttura sociale come la nostra, che è
quello del vincolo al lavoro. Ossia l’idea che ci debba essere un obbligo a
lavorare per vivere, anche quando il lavoro non c’è».
Secondo Coin, «in Italia stiamo vivendo un abuso di questa narrazione, che
ha una finalità precisa: mistificare le ragioni dell’elevata disoccupazione in
Italia. Sarebbe troppo onesto, e anche troppo rischioso, dire che da trent’anni
c’è una politica di smantellamento del tessuto produttivo italiano. Piuttosto che
affrontare questo tema, fa più presa dire che: “I giovani non hanno voglia di
lavorare”, e che “non hanno voglia di lavorare, a prescindere dai bassi salari”.
È una sorta di elogio mascherato allo sfruttamento».
Per quanto riguarda le cifre del reddito di cittadinanza, non stiamo parlando di
numeri così elevati come lascia intendere la narrazione che mette in
competizione il valore del sussidio con quello dei salari degli impieghi non
accettati.
Secondo i dati più recenti dell’Inps (qui scaricabili), nel periodo tra gennaio e
aprile 2021 l’importo medio mensile del reddito di cittadinanza è stato di circa
580 euro. Ricordiamo che il reddito di cittadinanza è stato pensato per andare
a singoli nuclei famigliari (ad aprile i nuclei beneficiari erano 1,4 milioni circa,
con oltre 3,3 milioni di persone coinvolte). Il valore medio del reddito di
cittadinanza per i nuclei composti da una sola persona – senza minori a carico
– è invece di circa 450 euro (400 euro del reddito di emergenza, introdotto per
proteggere chi non può accedere al reddito di cittadinanza). Una cifra
difficilmente competitiva con quella di un salario piuttosto decoroso.
In più va sottolineato qual è il profilo di chi riceve il reddito di cittadinanza ed è
stato preso in carico dai servizi per l’impiego (circa 330 mila persone secondo
i dati Anpal aggiornati ad aprile). «I beneficiari si presentano con basse
probabilità di accesso all’occupazione – scrive Anpal nel suo ultimo bollettino
– e con distanze dal mercato del lavoro che per di più crescono spostandosi
verso le regioni meridionali». Dunque stiamo parlando di soggetti non
immediatamente collocabili sul mercato del lavoro.
Secondo alcuni esperti, comunque, il tema degli incentivi non andrebbe
totalmente ignorato per analizzare quanto sta avvenendo nelle ultime
settimane. «Un effetto non penso lo stia avendo il reddito di cittadinanza, ma
gli incentivi ai lavoratori stagionali che stanno arrivando in questi giorni e che
fanno riferimento a periodi passati», ha detto a Valigia Blu Seghezzi. «Quando
a qualcuno arrivano un po’ di soldi, questi può pensare di prendere tempo
prima di cercare attivamente occupazione, in questo caso di far, per così dire,
passare l’estate. Così come un effetto potrebbero averlo le nuove regole per
la Naspi, ossia l’indennità mensile di disoccupazione, che ora ha un accesso
più facile e non ha più la riduzione mensile del 3% dopo il quarto mese di
fruizione. Questi incentivi potrebbero fare un po’ di competizione con salari un
minimo dignitosi, ma credo che a settembre la situazione sarà ben diversa».
Per quanto riguarda la Naspi, il suo importo medio è più elevato di quello del
reddito di cittadinanza, di poco superiore agli 800 euro (si veda la relazione
tecnica del decreto “Sostegni-bis”, ora all’esame del Parlamento).
In ogni caso, chi sostiene che il reddito di cittadinanza disincentivi la ricerca di
lavoro lo fa al più su base aneddotica, rientrando nella narrazione di
demonizzazione vista prima, dal momento che studi scientifici a riguardo non
ce ne sono. «Come in tutte le situazioni, ci può essere qualcuno che può
accontentarsi solo del reddito di cittadinanza, ma non credo proprio sia la
maggioranza. Così come ci sono altri che invece cercano occupazione, che,
ricordiamo, non può ridursi solo alla dimensione della retribuzione», ha
spiegato a Valigia Blu Garnero. «In assenza di studi, quello che sappiamo è
che il sistema di welfare italiano non è per forza disegnato per aiutare chi
cerca lavoro. Per esempio, in cassa integrazione è vietato lavorare: bisogna
rinunciare al proprio posto di lavoro se si vuole nel mentre un’altra
occupazione. Con la Naspi la situazione è leggermente migliore, ma anche
qui ci sono molti vincoli. Da decenni si sa che la responsabilità non è da
imputare ai “pelandroni”, ma da come è disegnato il sistema, che non aiuta chi
vuole cercare lavoro. Per di più i sussidi in Italia non sono così alti: la Cassa
integrazione, per dire, è una delle più basse a livello Ocse».
Ricordiamo che, per non vedersi togliere il beneficio, il percettore del reddito
di cittadinanza – che ha sottoscritto il Patto per il lavoro – deve accettare
almeno una di tre offerte di lavoro congrue, stabilite in base alla coerenza tra
l’offerta di lavoro e le esperienze e competenze maturate; la distanza del
luogo di lavoro dal domicilio e i tempi di trasferimento con mezzi di trasporto
pubblico; e la durata dello stato di disoccupazione. Il decreto “Sostegni”,
approvato a marzo, ha aggiunto la possibilità per i percettori del reddito di
cittadinanza di stipulare uno o più contratti a termine senza che il beneficio
venga perso o ridotto, se il valore del reddito familiare risulta pari o inferiore a
10 mila euro annui (al posto dei 6 mila precedenti).
Questo non significa che il reddito di cittadinanza sia perfetto così com’è
concepito, anzi. Come abbiamo scritto in passato, è stato un fallimento per
quanto riguarda il fronte delle politiche attive per il lavoro. E – come ha
spiegato anche la Banca d’Italia – ha diversi limiti anche come misura di
contrasto alla povertà, dal momento che discrimina le famiglie straniere e
quelle con minori, a vantaggio dei single.
«Il reddito di cittadinanza andrebbe riconcepito non come politica attiva, ossia
come è ora, pensato per trovare lavoro, ma come misura che svincoli dal
lavoro», ha aggiunto Coin a Valigia Blu.
Come è messo il fronte delle politiche attive
Prima di concludere, come abbiamo scritto a marzo scorso per quanto
riguarda il blocco dei licenziamenti, uno dei temi centrali quando si parla di
lavoro è quello delle politiche attive, ossia di quegli interventi messi in campo
per aiutare chi cerca un’occupazione a trovarla.
Il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), inviato dal governo Draghi
alla Commissione europea, ha destinato circa 6 miliardi di euro alla voce
“Politiche attive del lavoro e sostegno all’occupazione”. Qui dentro circa 4,4
miliardi di euro, per il triennio 2021-2023, vanno alla riforma “Politiche attive
del lavoro e formazione”, descritta così dal PNRR: «L’intervento ha l’obiettivo
di introdurre un’ampia e integrata riforma delle politiche attive e della
formazione professionale, supportando i percorsi di riqualificazione
professionale e di reinserimento di lavoratori in transizione e disoccupati
(percettori del reddito di Cittadinanza, Naspi e Cigs), nonché definendo, in
stretto coordinamento con le Regioni, livelli essenziali di attività formative per
le categorie più vulnerabili».
«La questione non si limita ai soldi: sono solo una parte delle sfide da
affrontare, e forse quella meno importante», ha sottolineato a Valigia Blu
l’economista Garnero. «Le questioni principali sono quelle organizzative, che
riguardano i centri per l’impiego. C’è poco personale, e spesso non dedicato a
chi cerca lavoro. E c’è anche un aspetto culturale: in Italia non c’è l’abitudine
di rivolgersi ai centri per l’impiego, o almeno meno di altri paesi, né dal lato di
chi cerca lavoro né dal lato di chi offre lavoro».
Nel 2019 un rapporto dettagliato dell’OCSE spiegava che le risorse destinate
all’Italia alle politiche attive erano «ben al di sotto della media dei Paesi
dell’Unione europea e di paesi con tassi di disoccupazione simili». In più,
l’OCSE aggiungeva che «il miglioramento del funzionamento e delle
prestazioni del sistema dei servizi per l’impiego è dunque oggi più urgente che
mai».
Due anni sono passati, c’è stata l’introduzione del reddito di cittadinanza e
l’arrivo di una pandemia. Qualcosa si è mosso, ma lo scenario sul fronte delle
politiche attive è ancora un grande punto interrogativo. I nodi qui sono ancora
tanti e «il lavoro da fare richiederà ancora molto tempo», ha concluso
Garnero. In tutto questo, la prima parziale scadenza del blocco dei
licenziamenti, prevista per il prossimo 30 giugno, si fa sempre più vicina