Le tre grandi variabili che determineranno
il futuro dell’umanità
Gestione degli squilibri demografici, mutamenti del quadro geopolitico e
interventi più o meno efficaci contro la crisi climatica saranno decisivi per
conseguire uno sviluppo sostenibile o continuare l’attuale degrado
di Donato Speroni
Sono nati poco dopo la Prima guerra mondiale, erano 17.177 a inizio 2021 e il
loro numero è costantemente in crescita, ci dice Linda Laura Sabbadini.
Sono i centenari italiani.
Questo numero di centenari è simbolico. Significa che ormai gli orizzonti dei
nostri percorsi di vita si sono dilatati. E dobbiamo cominciare a vedere le età
anziane come la seconda metà della vita, uno stadio della vita ricco di
opportunità. E soprattutto uno stadio della vita che deve fornire opportunità
per tutti.
Questo allungamento della vita “è una bellissima notizia”, come dice
Sabbadini, ma pone problemi che non possono essere accantonati. Deve
cambiare innanzitutto il rapporto tra le età considerate produttive e le età del
ritiro. Si racconta che la pensione fu istituita per i dipendenti pubblici dal
cancelliere tedesco Otto von Bismarck a 65 anni, perché quella era la
speranza di vita dei tedeschi: insomma le finanze pubbliche rischiavano solo
di dover mantenere per qualche anno i pochi fortunati che superavano quella
soglia. Totalmente diversa è la prospettiva previdenziale quando la vita media
si allunga a 85 anni e oltre. L’età produttiva andrebbe estesa, almeno per le
professioni non usuranti, forse in forme diverse da quello del lavoro a pieno
tempo: si apre qui un grande campo di riflessione sui tempi di vita (e sulla
formazione continua che necessariamente comporta) che certamente avrà
spazio nel futuro.
C’è poi il problema dell’assistenza agli anziani soli e non autosufficienti. Il loro
numero crescerà, ha ammonito monsignor Vincenzo Paglia nel convegno di
presentazione del rapporto sulla “Silver economy” preparato da Itinerari
previdenziali di Alberto Brambilla, con il patrocinio anche di ASviS e
FUTURAnetwork. Pensare di risolvere i loro problemi attraverso il ricovero
nelle Rsa farebbe saltare il bilancio dello Stato. Occorrono invece nuove
forme di partecipazione comunitaria, che non li sradichino dal luogo dove
hanno sempre vissuto.
Il quaderno di Itinerari previdenziali mostra però che gli anziani sono anche
una grande risorsa, non solo per il loro apporto all’economia, ma anche per il
contributo che possono dare alla comunità, soprattutto a livello di enti locali,
continuando a fornire le loro competenze: una iniziativa sulla quale sta
lavorando Roberto Mazzotta, ex politico e banchiere, e che dovrebbe
concretizzarsi con la costituzione di cooperative di anziani in alcuni grandi
comuni.
Per il nostro Paese, la prospettiva demografica è aggravata dal drastico calo
delle nascite, che rischia di portarci a una situazione, a metà secolo, nella
quale ogni persona attiva dovrà mantenere un pensionato. Abbiamo affrontato
il tema nel recente ASviS live promosso da FUTURAnetwork e dedicato
all’apporto che può dare l’immigrazione per correggere questa situazione.
Abbiamo sollecitato i partiti, e continueremo a farlo, a esprimere
pubblicamente la loro visione sul ruolo dell’immigrazione nelle prospettive
demografiche del Paese: quanti immigrati vogliamo ricevere? Con quali criteri
di selezione? Con quali modalità di accoglienza? La discussione che si è
aperta alla Camera sulla proposta di legge sullo ius scholae è già un positivo
segno di attenzione a questo problema, ma siamo ben consci del fatto che,
oltre alla giusta preoccupazione e alla necessità di una visione di lungo
termine sull’equilibrio demografico italiano, dobbiamo tener presente anche un
altro aspetto del problema: la globalità dei movimenti migratori.
Le tragedie di questi giorni a Melilla e al confine tra Stati Uniti e Messico, le
continue morti nel Mediterraneo ci dicono di una ondata che non è destinata a
smorzarsi, anzi potrebbe peggiorare molto a seguito della crisi alimentare
provocata dall’invasione russa dell’Ucraina. Prendiamo per esempio la
demografia africana: il continente aveva 250 milioni di abitanti nel 1950 e ne
avrà 2,5 miliardi nel 2050: una popolazione numerosissima composta
soprattutto da giovani, se si considera che nel 2020 l’età mediana era di 19,7
anni (cioè metà della popolazione era più giovane di quell’età) mentre in
Europa era di 43,7 anni. Che può fare un giovane africano, nelle attuali
condizioni, se non sperare di trasferirsi nel Nord del mondo? Bastano questi
dati per segnalarci una fortissima pressione che dovrà essere gestita con
politiche verso quel continente ben più efficaci di quelle messe in atto finora.
L’alternativa è una immigrazione incontrollata, in buona parte irregolare, che
provocherebbe gravissime conseguenze sociali e tendenze xenofobe con
pesanti riflessi politici.
La rivoluzione demografica dei prossimi anni (peggiorata anche dal fatto che
la secondo le previsioni della Banca mondiale 200 milioni di persone
emigreranno nei prossimi decenni a seguito della crisi climatica) si affianca a
una situazione geopolitica totalmente nuova che pone interrogativi pesanti
sulla capacità di gestione multilaterale delle crisi. I Paesi occidentali hanno
serrato i ranghi. Il conflitto in Ucraina ha indotto Svezia e Finlandia ad aderire
alla Nato e il G7 ha mostrato unità d’intenti nei confronti della Russia, ma
anche la consapevolezza dell’impossibilità di arroccarsi ignorando il fatto che
gli Stati che rappresentano due terzi della popolazione mondiale non hanno
condiviso le sanzioni contro Mosca. Al G7 infatti sono stati invitati anche India,
Argentina, Indonesia, Senegal e Sud Africa, con l’impegno a mettere in moto
investimenti consistenti diretti verso questi e altri Paesi del sud del mondo. In
pratica, si delinea una risposta occidentale alla “Silk and belt initiative” con la
quale i cinesi hanno cercato di legare a sé numerosi Stati in via di sviluppo.
Infatti la Cina non ha preso bene l’iniziativa.
Comunque finirà il conflitto in Ucraina (molto probabilmente con una
situazione di stallo di tipo coreano, dicono gli esperti) il vero confronto dei
prossimi anni sarà quello tra l’Occidente e la Cina. In questo contesto la Nato
diventa il fulcro di una politica comune che va oltre l’Atlantico. Infatti alla
riunione di Madrid erano presenti anche i governanti di Giappone, Corea del
sud, Australia e Nuova Zelanda. Parlando con una chiarezza senza
precedenti, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha detto che la
Cina sfida i nostri interessi e i nostri valori e che l’Alleanza deve prendere in
considerazione per la sua sicurezza gli investimenti che Pechino sta
effettuando in armamenti a lunga gittata. Si profila insomma una sorta di
nuova guerra fredda. Bisogna però valutare quanto questa contrapposizione
impedirà di lavorare insieme su obiettivi comuni, come quelli della lotta alla
crisi climatica. Sarebbe un disastro se alle difficoltà che già si frappongono ai
progressi nell’abbattimento delle emissioni si dovessero anche aggiungere
contrasti che per esempio facciano fallire la prossima Cop 27 sul clima,
prevista per novembre a Sharm el Sheik.
L’andamento della lotta alla crisi climatica è la terza grande variabile che
influenzerà il nostro futuro. La riduzione delle forniture dalla Russia e
l’impennata dei prezzi di gas e petrolio hanno aperto una partita importante
sui tempi della transizione, che l’Economist, giocando sul doppio senso, ha
definito “power struggle”. Da un lato c’è la crescente potenza delle rinnovabili,
che il giornale inglese definisce “la parte di maggior successo della risposta,
per il resto inadeguata, che il mondo ha dato finora alla crisi climatica”. Il
prezzo delle rinnovabili si è molto abbassato, e le smart grid, le “reti
intelligenti”, riescono a integrarle nel sistema elettrico con maggiore successo.
Non solo: la ricerca sulla conservazione dell’energia consentirà di produrre
batterie in grado di far fronte almeno in parte alla intermittenza di sole e vento.
Le rinnovabili hanno dunque un grande futuro, che comunque richiede un
certo tempo per mettere definitivamente ai margini i combustibili fossili.
Però il mondo non può rimanere senza energia. Quella che non verrà dalla
Russia dovrà arrivare da altre parti. Parliamo soprattutto di gas naturale, il
meno inquinante tra i fossili. Una soluzione può essere per esempio quella di
moltiplicare gli impianti di rigassificazione, per ricevere via nave il gas
liquefatto di cui gli Stati Uniti sono grandi esportatori. Ma gli investimenti, se si
fanno, devono poi essere ammortizzati. C’è dunque il fondato timore che
nuovi investimenti sul ciclo del gas comportino un allungamento del suo ruolo
nella transizione ecologica, a scapito delle rinnovabili.
Intanto l’Europa si confronta su un altro caposaldo della transizione ecologica:
l’auto elettrica. La riunione dei ministri dell’Ambiente di martedì 28 ha ribadito
l’impegno a proibire la vendita di nuove auto a combustione interna a partire
dal 2035. Alcuni governi, compreso quello italiano rappresentato dal ministro
Roberto Cingolani, avrebbero voluto introdurre clausole più flessibili, ma alla
fine l’impegno al 2035 è stato confermato. Il percorso non è affatto facile,
come rivela un focus di FUTURAnetwork dedicato appunto alle difficoltà per
raggiungere questo obiettivo: mancanza di colonnine di ricarica, prezzo delle
auto, debolezza dell’industria europea sono tutti ostacoli che si faranno
sentire. Con un interrogativo di fondo: il mondo del 2035 dovrà avere tante
automobili private quante ne abbiamo adesso oppure il trasporto pubblico e il
car sharing possono cambiare l’aspetto delle nostre strade?
Intanto l’Italia ha reso esplicite le sue strategie sull’Agenda 2030, presentando
all’Onu la sua nuova Voluntary national review, corredata dai documenti
elaborati dal Forum promosso dal ministero della Transizione ecologica (Mite),
nei quali si sottolinea anche il ruolo svolto dall’ASviS. Questa presentazione
(che prelude alla pubblicazione integrale della Strategia nazionale di sviluppo
sostenibile) è stata accompagnata anche da un documento elaborato con
l’Ocse sulla fattibilità della strategia italiana. Da segnalare che in questo
documento si evidenzia un problema già sottolineato più volte dall’ASviS, e
cioè la mancanza di un centro di coordinamento dell’intera strategia di
attuazione dell’Agenda 2030, che va oltre le competenze del Mite e può
essere collocato solo presso la presidenza del Consiglio. Insomma, il governo
ha presentato le linee di azione, ma sulle modalità di attuazione ci sono
ancora tante incognite.
In conclusione, in questi giorni abbiamo assistito a un rivitalizzarsi dei discorsi
sulle prospettive dell’Occidente, inteso come insieme di Paesi che
condividono gli stessi valori e che partono da una posizione privilegiata di
maggiore ricchezza rispetto al resto del mondo. Resta ora da vedere se
questo “risveglio” si accompagnerà a una capacità adeguata di visione per
supportare gli Stati più deboli, mantenere le proprie posizioni nel confronto
con la Cina senza però isolarsi, assumere una posizione di leadership nella
lotta alla crisi climatica.
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