LAVORO E SANITA’ – La perdita di personale del Servizio sanitario nazionale: ben oltre le peggiori previsioni ……..

La perdita di personale del Servizio
sanitario nazionale: ben oltre le peggiori
previsioni


di Giorgio Banchieri – Segretario Nazionale ASIQUAS, Docente presso
DiSSE, università “Sapienza”
Non bastano i programmi di formazione, pur necessari e previsti nel
PNRR, non bastano investimenti innovativi, tutti tendenzialmente
“labour saving”, servono risorse nuove, qualificate, motivate e oggetto
di politiche attive di loro sviluppo professionale e di carriera e nuovi
modelli di gestione dei servizi sempre più in un’ottica di gestione
trasversale per livelli di “intensità di cura” e/o di “livelli di complessità
assistenziale”
Lo scenario globale
La Rivista “The Lancet” ha pubblicato lo studio titolato “Misurare la
disponibilità di risorse umane per la salute e il suo rapporto con la copertura
sanitaria universale per 204 paesi e territori dal 1990 al 2019: un’analisi
sistematica per il Global Burden of Disease Study 2019”, elaborato da un
gruppo di lavoro internazionale “GBD 2019 Risorse umane per i collaboratori
sanitari “.
Nello studio si è stimato che, nel 2019, il mondo avesse 104,0 milioni
(intervallo di incertezza del 95% 83,5–128,0) operatori sanitari, inclusi 12,8
milioni (9,7–16,6) medici, 29,8 milioni (23·3–37·7) infermieri e ostetriche, 4·6
milioni (3·6–6·0) personale odontoiatrico e 5·2 milioni (4·0–6·7) personale
farmaceutico.
È stata calcolata una densità globale di medici di 16·7 (12·6–21·6) per 10.000
abitanti e una densità di infermieri e ostetriche di 38·6 (30·1–48·8) per 10.000
abitanti.
Per raggiungere 80 su 100 nell’indice di copertura effettiva UHC, lo studio ha
stimato che, per 10.000 abitanti, almeno 20,7 medici, 70,6 infermieri e
ostetriche, 8,2 personale odontoiatrico e 9,4 personale farmaceutico
sarebbero necessari, ovvero 3,4 infermieri e ostetriche per 1 medico. Da
quanto sopra ne deriverebbe che è necessaria una notevole espansione della
forza lavoro sanitaria mondiale per raggiungere livelli elevati di copertura
efficace dell’UHC.
Le maggiori carenze riguardano i contesti a basso reddito, evidenziando la
necessità di maggiori finanziamenti e coordinamento per formare, impiegare e
trattenere le risorse umane nel settore sanitario.
La carenza effettiva di risorse umane potrebbe essere maggiore di quanto
stimato perché le soglie minime per ciascun quadro di operatori sanitari sono
confrontate con i sistemi sanitari che traducono in modo più efficiente le
risorse umane nel raggiungimento dell’UHC.
C’è un ritorno alle assunzioni in sanità?
Luciano Fassari nell’articolo “Personale SSN. Con la pandemia tornano a
crescere le assunzioni: +15 mila in un anno. Boom del tempo determinato:
+60%”, apparso su “Quotidiano sanità”, riporta i dati emersi dal conto annuale
del MEF. Gli assunti a tempo indeterminato nel Servizio Sanitario Nazionale
hanno toccato nel 2020 quota 664.686 rispetto ai 649.523 del 2019. Ma quasi
tutto l’aumento è dovuto agli infermieri e al personale non dirigente mentre il
numero dei medici è rimasto inalterato.
Boom del tempo determinato dove nel 2021 se ne stimano oltre 50 mila unità
rispetto alle 32 mila del 2019.
Entrando nello specifico si nota come la maggior parte dell’aumento è dovuto
all’ingresso nel SSN di più infermieri e personale non dirigente: erano 518.533
nel 2019 e sono diventati 532.576 nel 2020. Anche in questo caso numeri
lontani dal 2011 quando le unità infermieristiche erano 545.704.
Stabili invece i medici: erano 112.146 nel 2019 e sono diventati 112.147 nel

  1. E anche in questo caso i numeri sono ancora distanti da quelli del 2011
    dove i medici del SSN erano 115.449.
    La pandemia ha portato anche a nuove assunzioni a tempo determinato dove
    si registra un aumento del personale di circa il 19% dal 2019 al 2020 e di circa
    il 30% dal 2020 al 2021.
    Nel 2021 le stime parlano di oltre 50 mila assunti contro i 32 mila che ce

La perdita di personale del Servizio
sanitario nazionale: ben oltre le peggiori
previsioni
di Giorgio Banchieri – Segretario Nazionale ASIQUAS, Docente presso
DiSSE, università “Sapienza”
Non bastano i programmi di formazione, pur necessari e previsti nel
PNRR, non bastano investimenti innovativi, tutti tendenzialmente
“labour saving”, servono risorse nuove, qualificate, motivate e oggetto
di politiche attive di loro sviluppo professionale e di carriera e nuovi
modelli di gestione dei servizi sempre più in un’ottica di gestione
trasversale per livelli di “intensità di cura” e/o di “livelli di complessità
assistenziale”
Lo scenario globale
La Rivista “The Lancet” ha pubblicato lo studio titolato “Misurare la
disponibilità di risorse umane per la salute e il suo rapporto con la copertura
sanitaria universale per 204 paesi e territori dal 1990 al 2019: un’analisi
sistematica per il Global Burden of Disease Study 2019”, elaborato da un
gruppo di lavoro internazionale “GBD 2019 Risorse umane per i collaboratori
sanitari “.
Nello studio si è stimato che, nel 2019, il mondo avesse 104,0 milioni
(intervallo di incertezza del 95% 83,5–128,0) operatori sanitari, inclusi 12,8
milioni (9,7–16,6) medici, 29,8 milioni (23·3–37·7) infermieri e ostetriche, 4·6
milioni (3·6–6·0) personale odontoiatrico e 5·2 milioni (4·0–6·7) personale
farmaceutico.
È stata calcolata una densità globale di medici di 16·7 (12·6–21·6) per 10.000
abitanti e una densità di infermieri e ostetriche di 38·6 (30·1–48·8) per 10.000
abitanti.
Per raggiungere 80 su 100 nell’indice di copertura effettiva UHC, lo studio ha
stimato che, per 10.000 abitanti, almeno 20,7 medici, 70,6 infermieri e
ostetriche, 8,2 personale odontoiatrico e 9,4 personale farmaceutico
sarebbero necessari, ovvero 3,4 infermieri e ostetriche per 1 medico. Da
quanto sopra ne deriverebbe che è necessaria una notevole espansione della
forza lavoro sanitaria mondiale per raggiungere livelli elevati di copertura
efficace dell’UHC.
Le maggiori carenze riguardano i contesti a basso reddito, evidenziando la
necessità di maggiori finanziamenti e coordinamento per formare, impiegare e
trattenere le risorse umane nel settore sanitario.
La carenza effettiva di risorse umane potrebbe essere maggiore di quanto
stimato perché le soglie minime per ciascun quadro di operatori sanitari sono
confrontate con i sistemi sanitari che traducono in modo più efficiente le
risorse umane nel raggiungimento dell’UHC.
C’è un ritorno alle assunzioni in sanità?
Luciano Fassari nell’articolo “Personale SSN. Con la pandemia tornano a
crescere le assunzioni: +15 mila in un anno. Boom del tempo determinato:
+60%”, apparso su “Quotidiano sanità”, riporta i dati emersi dal conto annuale
del MEF. Gli assunti a tempo indeterminato nel Servizio Sanitario Nazionale
hanno toccato nel 2020 quota 664.686 rispetto ai 649.523 del 2019. Ma quasi
tutto l’aumento è dovuto agli infermieri e al personale non dirigente mentre il
numero dei medici è rimasto inalterato.
Boom del tempo determinato dove nel 2021 se ne stimano oltre 50 mila unità
rispetto alle 32 mila del 2019.
Entrando nello specifico si nota come la maggior parte dell’aumento è dovuto
all’ingresso nel SSN di più infermieri e personale non dirigente: erano 518.533
nel 2019 e sono diventati 532.576 nel 2020. Anche in questo caso numeri
lontani dal 2011 quando le unità infermieristiche erano 545.704.
Stabili invece i medici: erano 112.146 nel 2019 e sono diventati 112.147 nel

  1. E anche in questo caso i numeri sono ancora distanti da quelli del 2011
    dove i medici del SSN erano 115.449.
    La pandemia ha portato anche a nuove assunzioni a tempo determinato dove
    si registra un aumento del personale di circa il 19% dal 2019 al 2020 e di circa
    il 30% dal 2020 al 2021.
    Nel 2021 le stime parlano di oltre 50 mila assunti contro i 32 mila che ce
    n’erano nel 2019, circa il 60% in più.
    In crescita anche i contratti co.co.co che dai 3.964 del 2019 sono saliti nel
    2020 a quota 9. 795.
    Nuovi contratti ma che per ora non abbassano l’età media del personale del
    SSN che risulta in crescita: nel 2020 si è attestata a quota 49,8 anni contro i
    43,5 anni del 2011.
    Le previsioni e le proposte ANAO ASSSOMED
    Nell’articolo apparso sempre su “Quotidiano sanità” titolato “ANAAO: Tra
    pensionamenti e licenziamenti previsti 40mila medici in meno entro il 2024”.
    Quarantamila medici in meno nel SSN entro due anni: questa la previsione
    dell’ANAAO ASSOMED che ha analizzato i principali fattori che
    determineranno la carenza di medici specialisti.
    Secondo il sindacato essi riconducibili ad almeno 3 fenomeni:
  2. Pensionamenti – Nel triennio 2019-2021 sono andati in pensione circa
    4.000 medici specialisti ogni anno per un totale di 12.000 camici bianchi. Nel
    triennio 2022-2024 andranno in pensione circa 10.000 medici specialisti.
    Quindi in 6 anni IL SSN perderebbe 22.000 medici specialisti ospedalieri per
    pensionamenti.
  3. Licenziamenti – A impoverire le corsie si aggiunge il fenomeno della fuga
    dagli ospedali. Dal recente studio ANAAO risulta che dal 2019 al 2021 hanno
    abbandonato l’ospedale circa 000 camici bianchiper dimissioni volontarie. Se
    il trend dei licenziamenti fosse confermato anche nel triennio successivo, si
    licenzierebbero ulteriori 9000 medici dal 2022-2024. Tra pensionamenti e
    licenziamenti si arriverebbe a una perdita complessiva di 40.000 medici
    specialisti entro il 2024.
  4. Nuove attività che richiedono una implementazione delle dotazioni
    organiche con medici specialisti
    ■ La pandemia ha reso indispensabile il potenziamento delle
    terapie intensive e sub-intensive non solo dal punto di vista
    del numero dei posti letto da incrementare ma anche del
    personale che deve essere specificamente formato a
    questa attività.
    ■ ll Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede
    diversi interventi tra i quali la realizzazione degli ospedali di
    Comunità con circa 11mila posti letto entro il 2026.
    Dove reperire il personale?
    Sempre secondo l’ANAAO ASSOMED gli specializzandi potrebbero essere
    l’ancora di salvezza per il SSN. Gli specializzandi che hanno ottenuto il
    contratto di formazione specialistica nel 2020 e nel 2021 (le borse sono state
    rispettivamente 14.000 e 18.000), potranno essere utilizzati negli ospedali
    solo tra 4/5 anni. Nell’immediato per il sindacato sarebbe necessario:
    stabilizzare tutto il precariato formato durante la pandemia (9.409 unità) e
    contrattualizzare, per quanto necessario e possibile, quella platea di 15mila
    specializzandi degli ultimi anni di specializzazione che già da subito
    potrebbero essere impiegati per dare aiuto nelle attività ospedaliere.
    Intento assistiamo alla “grande fuga” dagli ospedali e non solo

    Lo studio ANAAO ASSOMED, coordinato da Carlo Palermo, Chiara Rivetti,
    Pierino Di Silverio, Costantino Troise è stato pubblicato in sintesi sempre su
    “Quotidiano sanità” con il titolo “La grande fuga dagli ospedali del SSN. Negli
    ultimi tre anni 21mila medici li hanno abbandonati”.
    I dati del Conto Annuale del Tesoro (CAT) evidenziano che dal 2017 in tutta
    Italia si assiste ad una sua vera e propria esplosione con un trend in
    progressivo aumento. I dati del 2020 e del 2021, tratti dal database ONAOSI,
    confermano il persistere di una quota importante di licenziamenti (da 2000 a
    3000) che si aggiungono alle uscite per pensionamento (tabella 1).
    Il tutto, con la aggiunta dell’enorme carico emotivo legato all’alto numero di
    contagi e alle morti per Covid tra gli stessi operatori sanitari, in un contesto
    che già lamentava pesanti carenze di organico (- 46 mila addetti tra il 2009 e il
    2019). E dunque, nel 2021, riprende la grande fuga, come si evince dal
    grafico 12.886 medici ospedalieri, il 39% in più rispetto al 2020 ha deciso di
    lasciare la dipendenza dal SSN e proseguire la propria attività professionale
    altrove (dati derivati dal database ONAOSI sulla cessazione della
    contribuzione obbligatoria).
    Nel 2021 la media nazionale dei medici dipendenti che hanno deciso di
    licenziarsi è stata del 2,9%, percentuale abbondantemente superata dalla
    Calabria, 3.8%, e dalla Sicilia, 5.18%. La Lombardia, che era già oltre la
    media italiana nel 2020, aumenta ancora i suoi dimessi del 43%. La Liguria in
    un anno triplica i medici che si dimettono, la Puglia passa dal 2.04% al 3.29
    %.
    Del resto, le remunerazioni, anche a causa del blocco contrattuale
    ultradecennale, oramai sono ridotte a circa il 50% di quelle che offrono i paesi
    dell’ovest europeo, che entreranno in diretta competizione con l’Italia nella
    ricerca di personale sanitario nei prossimi anni, potendo godere di una
    situazione di evidente vantaggio per la maggiore valorizzazione delle capacità
    professionali oltre che per gli alti salari.
    Il crollo delle lauree sia in Medicina che in Scienze
    Infermieristiche
    Per altro Angelo Mastrillo, nell’articolo apparso su “Quotidiano sanità” titolato
    “Infermieri. Scendono i laureati: il 25% dei posti a bando resta vuoto” afferma
    che è la prima volta negli ultimi 11 anni che il numero dei laureati in
    Infermieristica scende sotto 10 mila.
    Per gli Infermieri, rispetto alla media annuale sugli ultimi 11 anni, i laureati
    sono 11.436 sui 15.464 posti messi a bando, pari al 74%. Valore questo che è
    sceso dall’81% del 2013 al 69% del 2020 e al 67% del 2021. La probabile
    causa potrebbe essere la difficoltà negli ultimi 2 anni di garantire il tirocinio per
    gli studenti e concludere quindi in tempo il percorso formativo.
    Inoltre, rispetto ai laureati in Medicina il rapporto è sotto 1 a 1, mentre era 2 a
    1, il doppio nel 2013. Se da una parte si giustifica l’aumento dei Medici per
    bilanciare il basso numero di laureati negli anni precedenti, a preoccupare è il
    calo progressivo degli Infermieri.
    La formazione del capitale umano, l’Italia agli ultimi posti in
    UE.
    Assistiamo ad una concausa che limita la possibilità di sviluppare il personale
    per il SSN e per la sanità italiana nel numero e nelle qualifiche necessarie.
    Alessandra Ferrara, Cristina Freguja, Lidia Gargiulo (ISTAT) nel loro report
    presentato alla X° Conferenza Nazionale di Statistica titolato “La difficile
    condizione dei giovani in Italia: formazione del capitale umano e transizione
    alla vita adulta” fanno un’analisi circostanziata del mercato del lavoro e dei
    processi formativi in Italia in rapporto agli altri Paesi UE.
    Il sistema di formazione del capitale umano determina forti differenziali negli
    indicatori di risultato (conseguimento titoli, qualità delle competenze…).
    Assistiamo ad un mercato del lavoro che vede disoccupati quasi il 30% dei
    giovani, 1 su 5 nella condizione di Neet (non lavora e non studia), e che li
    impiega in larga parte con contratti atipici (i più “volatili” in termini di impiego
    stabile) e in condizione di sottoccupazione.
    Le difficoltà che emergono nel completare i percorsi di studio fanno sì che
    l’Italia si distingua negativamente nel contesto europeo per la quota di early
    school leavers, cioè i giovani di 18- 24 anni che hanno abbandonato gli studi
    senza aver conseguito un diploma di scuola superiore. Sono il 19,2 per cento
    nel 2009, oltre quattro punti percentuali in più della media europea e nove
    punti al di sopra dell’obiettivo del 10 fissato dalla Strategia di Lisbona e
    riproposto da Europa 2020 (Figura 1)
    Figura 1 – Giovani che abbandonano prematuramente gli studi nei paesi
    Ue – Anno 2009 (valori percentuali)
    Nel 2009, in termini di stock, 19 dei giovani 30-34enni ha conseguito un titolo
    di studio universitario, con un incremento, tra il 2004 e il 2009, di 3 punti
    percentuali. Il livello di istruzione dei 30-34enni è tra gli indicatori individuati
    dalla Commissione Europea nella strategia Europa 2020. Il target fissato, da
    raggiungere entro il prossimo decennio, è pari al 40 per cento della
    popolazione nella classe di riferimento: mentre la metà dei paesi dell’Unione
    ha già raggiunto l’obiettivo, l’Italia (con un valore dell’indicatore di 13 punti
    inferiore alla media Ue27) si colloca alla quarta peggiore posizione nella
    graduatoria dell’Unione (Figura 2)
    Figura 2 – Popolazione in età 30-34 anni che ha conseguito un titolo di
    studio universitario nei paesi Ue – Anno 2009 (valori percentuali)
    Nel 2009, il 21,2 per cento della popolazione tra i 15 e i 29 anni, poco più di
    due milioni di giovani, risulta del tutto fuori dal circuito formazione-lavoro (Not
    in education, employment or training, Neet). L’Italia risulta il paese in cui il
    fenomeno è più accentuato tra quelli dell’Ue 19 (con una quota pari al 19,2 per
    cento nel 2008). I divari sono da imputare sia al minore inserimento dei
    giovani nell’occupazione, sia alla loro maggiore condizione di inattività
    (piuttosto che di disoccupazione) rispetto ai giovani degli altri paesi europei;
    ciò mette in evidenza una minore capacità del mercato del lavoro italiano di
    includere i giovani, generando uno stato di inattività così prolungato da
    rischiare di trasformarsi in una condizione permanente.
    L’impatto della fase ciclica negativa sulla popolazione giovanile ha
    determinato una significativa flessione degli occupati (300 mila in meno
    rispetto all’anno precedente tra i 18- 29enni, il 79 per cento del calo
    complessivo dell’occupazione: una caduta oltre tre volte superiore a quella
    subita dal tasso di occupazione totale ) con un netto svantaggio di genere per
    le giovani donne, il cui il tasso di occupazione (37 per cento) è di quattordici
    punti percentuali più basso di quello dei coetanei maschi , tra i quali poco più
    della metà risulta occupato. Anche se in tutta l’Unione europea i giovani
    rappresentano un gruppo che ha particolarmente risentito della fase
    recessiva, l’Italia si colloca all’ultimo posto dell’ordinamento.
    È solo un problema di medicina territoriale?
    Francesco Medici nell’articolo apparso su “Quotidiano sanità”, titolato “Inutile
    riformare il territorio senza mettere mano all’ospedale”, sostiene che il Decreto
    77 (Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Servizio
    Sanitario Nazionale) sta, con notevole ritardo, integrando con la cosiddetta
    parte “territoriale” il capitolo “ospedaliero” figlio del Decreto 70 addirittura del
  5. (Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali,
    tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera. (GU Serie
    Generale n.127 del 04-06-2015)
    Capito che il Decreto Balduzzi degli studi aperti H24 non ha funzionato, con il
    Decreto 77 si è corretto il tiro dando posti letto al territorio.
    Il “territorio” soffrirà anche con il DM 77: si sta cercando di inserire
    surrettiziamente nella medicina convenzionata il “modus operandi” della
    dipendenza, lo si sta cercando di fare senza prevedere un diverso tipo di
    contratto di lavoro.
    Urge la riforma del DM 70 anche perché gli ospedali con la Legge 34 hanno
    costruito (correndo peraltro) posti di terapia intensiva di Sub intensiva che
    oggi risultano potenzialmente inutili, pandemia permettendo, e quindi
    inutilizzabili, sempre lì dove non si siano allestiti padiglioni, fiere o chiese
    riempendoli di attrezzature costosissime che oggi prendono polvere. I DEA di I
    ma soprattutto di II livello vanno “riformati”.
    Quello che deve essere rafforzato ed integrato non è solo il territorio ma è
    l’ospedale, soprattutto l’ospedale.
    Bisogna arrivare a quello che è stato definito l “’ospedale flessibile” ovvero un
    ospedale che può tranquillamente avere dei reparti chiusi che vengono riaperti
    secondo emergenze: possa essere un PEIMAF (maxi emergenza) possa
    essere emergenza infettiva Covid, SARS e quant’altro, possa essere
    semplicemente un’emergenza stagionale quale la sindrome influenzale.
    Possa essere solo un piano per recuperare le liste di attesa chirurgiche.
    Dobbiamo prevedere sia per il medico ospedaliero e che per il MMG e PLS di
    assumere non solo medici ed infermieri ma personale amministrativo
    specializzato per il SSN. Dovremmo prevedere nel nostro SSN una nuova
    figura professionale una “figura amministrativa di reparto” che coadiuvi medici
    ed infermieri nei reparti o negli ambulatori ad utilizzare nuovi mezzi
    tecnologici. È assurdo che il SSN paghi un professionista medico per fare
    adempimenti burocratici (cartella informatizzata, ricetta elettronica,
    certificazione INAIL, certificazione medica digitalizzata e quant’altro).
    Fabbisogni di personale e percorsi formativi reali.
    Quando c’erano le Scuole Infermieristiche presso i Grandi Ospedali italiani si
    formavano 7/8 infermieri per ogni medico laureato. Con lo sviluppo delle
    attività assistenziali sociosanitarie, residenziali e di prossimità, nonché USCA
    e ADI, probabilmente ne servirebbero 8/9 per ogni medico.
    Stando al prospetto dal 2011 al 2021 abbiamo 1,4 infermieri per medico,
    media degli ultimi anni 0,9!
    Applicando il parametro che si evince dallo studio globale di “The Lancet”
    citato all’inizio del capitolo il rapporto tra medico e infermieri per 10.000
    abitanti dovrebbe essere pari a 3,4 infermieri e ostetriche per medico.
    Applicandolo abbiamo i dati che potete leggere nella tabella seguente:
    Abbiamo assistito in questi anni al trionfo di logiche accademiche di equilibri di
    potere tra Corsi di Laurea in Medicina e Corsi di Laure in Scienze
    Infermieristiche giocati sul numero degli studenti come parametro di accesso
    ai Fondi MUIR, senza nessuna logica programmatoria di garantire il tour over
    del personale e lo sviluppo necessario dei servizi.
    I Piani di Rientro, i tagli ai Fondi per il SSN, la defiscalizzazione del “welfare
    aziendale”, come cavallo di Troia dello sviluppo della “sanità integrativa” (vedi
    il “Job Act” dei Governi Renzi e successivi fino ad oggi) hanno fatto il resto.
    Oggi affrontare il tema del PNRR senza porsi in modo sostanziale il problema
    del numero e delle qualifiche del personale, equivale a ridurre lo stesso PNRR
    in una serie di investimenti strutturali e di dotazioni, pur necessari, che
    rischiano di essere fini a sé stessi.
    Le Determine Regionali sulle location degli investimenti del Modulo 6 del
    PNRR disegnano scelte fatte con gli Enti Locali al di fuori dei parametri e degli
    standard definiti dallo stesso PNRR.
    Non bastano i programmi di formazione, pur necessari e previsti nel PNRR,
    non bastano investimenti innovativi, tutti tendenzialmente “labour saving”,
    servono risorse nuove, qualificate, motivate e oggetto di politiche attive di loro
    sviluppo professionale e di carriera e nuovi modelli di gestione dei servizi
    sempre più in un’ottica di gestione trasversale per livelli di “intensità di cura”
    e/o di “livelli di complessità assistenziale”.
    Per garantire una “presa in carico” dei pazienti da parte di equipe multi
    professionali, multidisciplinari, in setting assistenziali diversi gestiti in modo
    integrato sia a livello ospedaliero che nel territorio.
    Servono nuovi modelli gestionali.
    Non basta il modello Veneto/Lombardia di trasformare l’OSS in una specie di
    “aiuto-infermiere” con corsi di 150 ore teoriche e 150 ore di pratica.
    Serve altro e presto.
    [1] Parametro da studio “The Lancet” di 3,4 infermieri per medico per 10.000
    abitanti.
    Allegati:
    Tabella 2
    Grafico 2
    Grafico 1
    Tabella 1

FONTE: QUOTIDIANOSANITA’.IT

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