Un Paese che non investe sulle nuove generazioni non ha futuro – I test Invalsi confermano i ritardi della scuola secondaria italiana, ma le misure per l’istruzione varate nell’ambito del Pnrr appaiono insufficienti. Tra i giovani e il mondo del lavoro c’è molta incomprensione.

Un Paese che non investe sulle nuove
generazioni non ha futuro
I test Invalsi confermano i ritardi della scuola secondaria italiana, ma le misure
per l’istruzione varate nell’ambito del Pnrr appaiono insufficienti. Tra i giovani e
il mondo del lavoro c’è molta incomprensione.

di Donato Speroni
I risultati dei testi Invalsi, resi noti in questi giorni, mettono in luce due gravi
problemi. Il primo è la generale inadeguatezza della scuola secondaria.
Mentre nella primaria si raggiungono risultati considerati accettabili nel
confronto internazionale, nelle medie e negli istituti superiori ci sono gravi
carenze. Dopo due anni di didattica a distanza, con il ritorno delle classi in
presenza i risultati sono leggermente migliorati, ma sono ancora inferiori a
quelli del 2019, prima dell’insorgere della pandemia. Il secondo problema,
certamente non nuovo, è il grave divario tra le regioni italiane, con il forte
ritardo delle scuole del Mezzogiorno.
Scrivono Eugenio Bruno e Claudio Tucci sul Sole 24 Ore:
La fotografia 2022 degli esiti delle prove Invalsi in italiano, matematica e
inglese (sono stati testati circa 2,4 milioni di studenti, inclusi quelli di seconda
superiore, lo scorso anno esclusi) parla piuttosto chiaro. In quinta superiore
appena il 52% degli studenti ha raggiunto almeno il livello considerato
adeguato in italiano. Questo significa che il restante 48% dei ragazzi non l’ha
raggiunto. Siamo allo stesso livello dei 2021 (52% con livello adeguato), ma
rispetto al 2019 (nel 2020 le prove Invalsi non sono state svolte per via
dell’emergenza sanitaria, ndr) eravamo al 64 per cento. Stesso film, se non
peggio, per la matematica: qui il 50% degli studenti ha raggiunto risultati base
(stesso valore dello scorso anno, ma nel 2019 eravamo al 61%). Il livello B2 in
inglese (reading) è raggiunto dal 52% dei ragazzi. Va un po’ meglio rispetto al
2021 (50%), ma siamo sempre sotto rispetto al 2019 (55%). (…) A
preoccupare è anche il divario territoriale che si allarga: all’uscita della scuola
gli allievi che non raggiungono il livello base in italiano superano la soglia del
60% in Campania, Calabria e Sicilia. In matematica gli studenti sotto il livello
adeguato arrivano al 70% in quattro regioni (Campania, Calabria, Sicilia,
Sardegna). Sempre nelle stesse regioni non raggiungono il B2 il 60% dei
ragazzi nella prova di reading e l’80% in quella di listening.
Da notare che il livello del 2019 era comunque insufficiente nel confronto
internazionale. Si tratta dunque di carenze strutturali, che andrebbero
affrontate con drastici interventi nel mondo della scuola. Si sta facendo
abbastanza? Due esperti che questo mondo conoscono bene, il direttore della
Fondazione Agnelli Andrea Gavosto (che è anche coordinatore del Gruppo di
lavoro dell’ASviS sul Goal 4 dell’Agenda 2030, “Istruzione di qualità”) e la
sociologa Chiara Saraceno rispondono negativamente. Gavosto analizza la
legge 79, appena approvata dal Parlamento, che delinea le riforme
necessarie per spendere i 20 miliardi che il Piano nazionale di ripresa e
resilienza (Pnrr) destina alla scuola.
È una scelta sensata: spendere quasi 20 miliardi di euro per l’istruzione,
senza toccare i meccanismi che governano il funzionamento della scuola,
avrebbe reso pressoché inutile un investimento di questa portata. La legge
avrebbe dovuto occuparsi di tre questioni fondamentali e urgenti: la
formazione e il percorso per diventare insegnanti; l’aggiornamento
professionale di chi insegnante è già; la costruzione di un percorso di carriera
per tutti.
In realtà queste tre questioni non sono state risolte in modo adeguato.
Accanto alla “strada maestra” per l’accesso all’insegnamento nella
secondaria, e cioè un anno di formazione universitaria ad hoc in aggiunta alla
laurea nella materia da insegnare, per accedere poi al concorso, è stato
mantenuto aperto un canale di accesso per regolarizzare i tanti precari, senza
però una adeguata valutazione sulla qualità. L’aggiornamento non è
obbligatorio, ma è affidato a incentivi economici di dubbia efficace.
Soprattutto, non è stata delineata una vera e propria carriera dell’insegnante,
che per il progresso professionale potrà contare solo sugli scatti di anzianità.
Per contro, le scuole hanno bisogno di persone che coadiuvino il preside,
programmino le attività, coordinino le pratiche didattiche dei colleghi, ecc. Per
assolvere a questi compiti bisognerebbe introdurre livelli crescenti di
responsabilità didattiche e organizzative, con aumenti salariali consistenti. In
questo modo l’aggiornamento avrebbe un fine chiaro, i soggetti sarebbero
valutati per i passaggi di carriera, si amplierebbe la progressione retributiva, si
attirerebbero giovani desiderosi di impegnarsi nella scuola.
Anche Saraceno affronta il tema dei fondi del Pnrr per l’istruzione, ma in una
intervista al Fatto quotidiano espone le critiche formulate da un gruppo di
esperti ai criteri impiegati per gli investimenti contro l’abbandono scolastico.
Avevamo detto che occorre che la scuola collabori con la comunità intorno: il
Comune, le Asl, i servizi sociali, il terzo settore. Avrebbero dovuto fare
progetti, precisi e monitorabili, che prevedessero queste collaborazioni, con
task force dedicate e patti educativi di comunità. Nel Decreto non se ne fa
neppure cenno.
Tutto questo porta a un abbandono scolastico di almeno 500mila giovani. La
mancata preparazione delle nuove generazioni ha un inevitabile impatto sul
loro inserimento nel mondo del lavoro. In un ampio articolo sul Sole 24
Ore, Daniele Martini esamina alcune caratteristiche della situazione attuale: il
mismatch (giovani che non trovano lavoro e aziende che non trovano
personale); la Great resignation (un fenomeno riscontrato negli Stati uniti, ma
ora con riflessi anche in Europa: i giovani che lasciano un lavoro fisso, anche
a tempo indeterminato, per avere più libertà, pensando anche di poter
comunque soddisfare le proprie esigenze senza i salari spesso troppo bassi
offerti dalle aziende); il cambiamento demografico:
Dal 2008 al 2019 la quota di occupati con meno di 34 anni passa dal 30 al 22
per cento. Secondo le previsioni Istat, i giovani fra i 15 e 34 anni passeranno
dagli attuali 12,1 milioni, agli 11,7 del 2032, con un calo del 3,9 per cento. Le
giovani generazioni di lavoratori diventano sempre più una risorsa scarsa.
È significativo che nella 14esima edizione del Rapporto sulla sicurezza e
l’insicurezza sociale in Italia e in Europa, elaborato su iniziativa di
Fondazione Unipolis e Demos&Pi, il curatore della ricerca Ilvo Diamanti
metta l’accento sul “futuro dei giovani”.
Un futuro sempre più incerto e con poche probabilità di successo. La
preoccupazione dei giovani per il loro domani si riflette nelle risposte date
sulla ripartizione della spesa pubblica. Secondo il sondaggio, in Italia, il 27%
dei giovani dai 18 ai 29 anni pensa che la spesa pubblica dello Stato
dovrebbe investire prioritariamente nel lavoro. Seguono la scuola e l’istruzione
(17%) e le politiche per l’ambiente (13%). Rispetto a quest’ultimo dato è da
notare che tra gli intervistati di età compresa tra i 18 e 21 anni, la percentuale
di persone che destinerebbe la spesa pubblica innanzitutto alle politiche
ambientali è del 17%.
Il lavoro è per i giovani un tema cruciale. Da una parte, come emerso,
rappresenta un campo in cui viene auspicato l’intervento dello Stato; dall’altra,
però, traspare una competizione intergenerazionale. Quest’ultimo fattore è
molto sentito soprattutto nella fascia di età appena maggiorenne (18-21 anni),
che per il 71% delle risposte ha reagito affermativamente alla domanda “I
lavoratori anziani bloccano le carriere dei giovani?”. Aleggia quindi il
sentimento di essere “frenati e vincolati” della popolazione anziana, prosegue
Diamanti in introduzione, “in quanto svantaggiati nella ‘mobilità’ sociale. Nelle
opportunità di carriera. Soprattutto le donne”.
Ed è per questo che le speranze si rivolgono verso l’estero dove, per il 77% di
tutti gli intervistati, il 59% dei giovani in età compresa tra i 18 e i 29 anni, e per
il 62% della fascia 18-21 anni, i giovani possono sperare di costruire una
carriera e un futuro, a differenza che in Italia. Un dato che si riflette nelle
parole che Pierluigi Stefanini, presidente di Fondazione Unipolis nonché
presidente e portavoce dell’ASviS, affida alla postfazione del documento: “Tra
le disuguaglianze che ci preoccupavano di più c’era sicuramente quella di
accesso al lavoro e alle misure di welfare collegate. In questo caso la
percezione di ingiustizia generazionale è forte, soprattutto nel nostro Paese”.
È evidente che stiamo assistendo a un paradosso. Le nuove generazioni sono
sempre meno numerose. Lo sappiamo, ce ne preoccupiamo, si auspica una
ripresa della natalità che comunque richiederebbe decenni per dare qualche
effetto. Ma non si fa abbastanza per offrire a questa classe di giovani sempre
più esigua un futuro accettabile. Le nuove generazioni non vengono formate
adeguatamente, non vengono orientate sui fabbisogni del mondo del lavoro (o
forse in molti casi le imprese non offrono impieghi abbastanza interessanti)
vivono in una condizione di precarietà e incertezza che le induce a guardare
all’estero, aggravando così la crisi demografica. I giovani si sentono
discriminati. Pensano che gli anziani frenino il loro sviluppo: una sensazione
probabilmente non vera, ma che non si fa nulla per affrontare. Certamente su
un punto hanno ragione: il futuro che viene loro offerto si basa sulla
precarietà, senza condizioni adeguate per costruirsi una vita serena e formarsi
una famiglia.
Editoriale a cura di: ASVIS

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