Le ragioni delle tensioni tra Cina, USA e
Taiwan dietro la visita di Nancy Pelosi
di Eleonora Zocca
Tra le ipotesi che circolavano nei giorni precedenti alla visita di Nancy Pelosi a
Taiwan una delle più accreditate era quella dello “stop-over”, ovvero una sosta
necessaria per fare rifornimento di carburante o altro tipo di manutenzione
all’aereo per non far apparire ufficiale la visita della speaker della Camera
americana a Taipei. D’altronde la settimana prima i presidenti Joe Biden e Xi
Jinping avevano passato due ore e venti minuti al telefono, annunciando al
termine del colloquio anche un possibile incontro di persona e facendo
intendere, quindi, che tra le due parti forse un compromesso sulla visita di
Nancy Pelosi era stato raggiunto. Anche nel comunicato stampa ufficiale,
diramato la domenica del 31 luglio per annunciare il viaggio di Nancy Pelosi in
Asia, tra le tappe elencate – Singapore, Malesia, Sud Corea e Giappone –
Taiwan non compariva. Ma quando l’Air Force con a bordo Nancy Pelosi è
atterrato all’aeroporto di Songshan, Taipei, la capitale di Taiwan, il 2 agosto
alle ore 22.42 ora locale, con il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu
pronto a ricevere la terza carica degli Stati Uniti, è diventato chiaro che non
c’era alcun escamotage diplomatico per addolcire la pillola da somministrare a
Pechino.
Pochi minuti dopo l’arrivo di Pelosi a Taipei, il suo staff ha pubblicato il
comunicato stampa ufficiale relativo alla visita, e quasi in contemporanea sul
Washington Post è apparso nella sezione “Opinion” un articolo a firma della
stessa speaker della Camera ancora più esaustivo – e duro – sul perché
aveva condotto la delegazione a Taiwan:
La discussione con i nostri partner taiwanesi si concentrerà sulla
riaffermazione del nostro sostegno all’isola e sulla promozione dei nostri
interessi condivisi, incluso il progresso di una regione indo-pacifica libera e
aperta. […] La solidarietà dell’America con Taiwan è oggi più importante che
mai, non solo per i 23 milioni di abitanti dell’isola, ma anche per le milioni di
altre persone oppresse e minacciate dalla Repubblica Popolare Cinese. […]
Non possiamo restare a guardare mentre il PCC continua a minacciare
Taiwan e la stessa democrazia. Compiamo questo viaggio in un momento in
cui il mondo si trova di fronte ad una scelta tra autocrazia e democrazia.
Viaggiando a Taiwan, onoriamo il nostro impegno per la democrazia:
riaffermando che le libertà di Taiwan – e di tutte le democrazie – devono essere
rispettate.
Nel comunicato viene specificato anche come “in alcun modo [la visita]
contraddice la politica di lunga data degli Stati Uniti” che “continueranno a
opporsi ai tentativi unilaterali di cambiamento dello status quo”. Ma la
controversa missione di Nancy Pelosi che ha avuto i connotati di una visita
ufficiale di Stato – con l’incontro con la presidente Tsai Ing-wen, il discorso al
Parlamento (ancora più grave dal punto di vista di Pechino perché
rappresenta una legittimazione della funzione legislativa di Taiwan), i
rappresentanti della società civile e del settore industriale – segna un
momento storico che potrebbe cambiare gli equilibri nell’Asia del Pacifico.
E la risposta dall’altra parte dello Stretto non si è fatta attendere. Già nel
comunicato successivo alla telefonata tra Biden e Xi, Pechino aveva intimato
agli Stati Uniti che “chi gioca con il fuoco rischia di bruciarsi”, ma quando la
visita di Nancy Pelosi a Taiwan ha preso forma è passata a mostrare i
muscoli. La sera stessa è stato convocato l’ambasciatore americano a
Pechino, e attraverso l’agenzia di stampa Xinhua sono state annunciate
operazioni militari a fuoco vivo in sei aree intorno all’isola, ne sono state
indicate le coordinate ed è stato specificato che le operazioni andranno avanti
da giovedì 4 a domenica 7 agosto. In tre di queste verrebbero valicate le
acque territoriali taiwanesi, raggiungendo in un caso le 12 miglia dalla costa.
Mettendo a confronto le coordinate delle operazioni militari durante la Terza
crisi dello Stretto avvenuta nel 1996 con quelle attuali, emerge come Pechino
abbia stretto molto di più il campo e si sia avvicinata alle coste dell’isola. Sul
piano commerciale, la Cina ha bloccato poi l’import di più di 2.000 beni
alimentari e ha interrotto le esportazioni verso l’isola di sabbia naturale,
indispensabile per la produzione di semiconduttori di cui Taiwan è leader
mondiale (seppur non mettendo a rischio la catena di approvvigionamento).
Come si è arrivati al punto di non ritorno
Nancy Pelosi è la figura politica americana più alta in grado di visitare Taiwan
dal 1997, anno in cui il suo predecessore Newt Gingrich, repubblicano, giunse
sull’isola. La situazione, però, non è del tutto analoga. Allora alla presidenza
americana c’era il democratico Bill Clinton, di segno politico opposto rispetto a
Gingrich, mentre in questo caso le azioni della speaker democratica vengono
viste da Pechino come estensione delle volontà della Casa Bianca. Quando a
metà luglio il Financial Times ha pubblicato la notizia che il viaggio in Asia di
Pelosi – inizialmente previsto ad aprile e annullato per Covid – sarebbe stato
riprogrammato per agosto, alle domande dei giornalisti il presidente Biden
aveva risposto: “I militari credono che non sia una buona idea”. Biden ha
cercato di far cambiare idea più volte inviando alti funzionari, incluso il
consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, per esporre i rischi della
missione, ma Pelosi non ha voluto cancellare la visita. E il fatto che il
presidente Biden abbia dichiarato pubblicamente di non essere d’accordo con
Pelosi ha reso la scelta una questione di postura internazionale tra l’andare
comunque in visita a Taiwan e scatenare una crisi che non ha precedenti dal
1996 o cancellare il viaggio e apparire accondiscendenti con le volontà di
Pechino.
Perché Pelosi e Biden, che lavorano a stretto contatto su numerosi dossier,
appaiono così asincroni su un tema tanto delicato? E perché il Dipartimento
della Difesa ha messo al corrente la terza carica dello Stato americano dei
pericoli della missione solo dopo la pubblicazione della notizia da parte del
Financial Times?, si chiede Mike Chinoy, senior fellow dell’Istituto Usa-Cina
della University of Southern California, in un editoriale su Foreign Policy, che
mette bene in luce i vari passaggi che hanno portato Washington a
impantanarsi. Nei mesi scorsi, lo stesso Joe Biden ha contribuito a rendere
ancora più confusa la linea estera americana rispetto a Cina e Taiwan
dichiarando per ben tre volte che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti
militarmente in caso di attacco, per poi essere “corretto” poco dopo dal suo
stesso ufficio nella Casa Bianca che nei comunicati ha dovuto evidenziare
come nulla sia davvero cambiato nelle relazioni tra Stati Uniti e Taiwan,
regolate dal Taiwan Relations Act del 1979 che fa leva proprio su un’ambiguità
di fondo che non chiarisce in maniera esplicita se gli Stati Uniti siano o meno
obbligati a intervenire militarmente. Tra le domande che si pone Mike Chinoy
c’è anche quella della tempistica che appare “gratuitamente provocatoria”
visto l’anniversario della fondazione dell’Esercito popolare di liberazione del 1°
agosto, ma soprattutto la vigilia del Congresso del PCC che si terrà questo
autunno e che vedrà Xi Jinping ottenere il terzo mandato. Cosa spera
esattamente di ottenere Pelosi? Ovviamente fornire supporto a Taiwan, ma è
altamente probabile che Pechino possa leggerci una cospirazione – che sia o
meno un problema di comunicazione interna a Washington. Scrive Minxin Pei
in un editoriale su Nikkei Asia che “essendo Taiwan la questione più sensibile
per la politica interna cinese, comprensibilmente il presidente Xi non potrà
apparire debole in un momento in cui ha bisogno piuttosto di proiettare
un’immagine di forza. D’altra parte, una reazione eccessiva alla visita di
Nancy Pelosi a Taipei potrebbe essere controproducente se si trasformasse in
un conflitto militare al quale la Cina non è preparata”.
Leggi anche >> La “battaglia” Cina-Usa per Taiwan
Nel settembre 1991 Nancy Pelosi faceva parte di una delegazione in visita a
Pechino e già a suo tempo si era contraddistinta per azioni dimostrative in
opposizione al Partito Comunista Cinese. Erano passati poco più di due anni
da piazza Tiananmen, e Pelosi insieme a due altri membri del Congresso
decise di allontanarsi dal resto della delegazione e visitare la piazza in cui si è
consumato uno degli eventi più drammatici della storia recente cinese. A
favore di telecamere, esposero un manifesto su cui c’era scritto sia in lingua
cinese che inglese “A coloro che sono morti per la democrazia in Cina” e
posarono dei fiori in tributo agli studenti morti nelle manifestazioni, prima di
essere fermati dalle forze dell’ordine di Pechino.
In quel caso, i giornalisti che filmarono il gesto furono arrestati e detenuti per
qualche ora, ma nel momento storico in cui ci troviamo non possiamo
escludere l’escalation militare. Magari non nell’immediato – come abbiamo
detto Xi si trova alla vigilia del Congresso e anche per Biden sono alle porte le
elezioni di metà mandato – ma la visita di Nancy Pelosi a Taiwan ha aperto un
vaso di Pandora di cui non si conoscono ancora gli effetti.
Cosa vuole la Cina da Taiwan
La “riunificazione della Cina” è uno degli obiettivi principali di Xi Jinping da
portare a compimento entro il 2049, anno del centenario della Repubblica
Popolare Cinese. Il ricongiungimento di Taiwan sotto una “unica Cina”
rappresenta una missione storica per il PCC, che il presidente Xi ha fatto
intendere non lascerà ai suoi successori. Ma cos’è esattamente il principio
della Cina unica, anche noto in lingua inglese come “One China policy”?
Nel 1971, con il disgelo dei rapporti tra Cina Popolare e Stati Uniti, Pechino
ottenne un importante risultato sostituendo nel Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite come membro permanente proprio Taiwan, grazie alla rinuncia
di Washington di porre il veto sul suo ingresso. Pochi mesi prima il presidente
repubblicano Nixon, in una storica visita, si era recato a Pechino dove venne
firmato il “Comunicato di Shanghai”, nel quale sostanzialmente entrambe le
parti rinunciavano a qualsiasi atteggiamento egemonico nell’area dell’Asia
Pacifico e si opponevano ad atti di questo tipo da parte di singoli o gruppi di
stati. La seconda parte si concentrava sulla questione di Taiwan:
Gli Stati Uniti riconoscono il fatto che tutti i cinesi [che vivono] nell’una o altra
parte dello Stretto di Taiwan [e quindi a Taiwan e nella Cina Popolare]
affermano che esiste una sola Cina e che Taiwan è parte della Cina. Gli Stati
Uniti non contestano tale posizione. Essi riaffermano il loro interesse per [la
ricerca di] una soluzione pacifica della questione di Taiwan da parte dei cinesi
stessi.
Posizione che si consolidò alla fine del 1978 quando, dopo una serie di
incontri non positivi tra diplomazia cinese e statunitense durante i quali
Pechino chiedeva la fine del riconoscimento americano del governo di Taiwan,
venne trovato un accordo che lasciava ancora meno spazio a fraintendimenti
o diverse interpretazioni:
Gli Stati Uniti riconoscono il governo popolare della Repubblica Popolare
Cinese come il solo governo legale cinese e riconoscono la posizione cinese
secondo cui non vi è che una sola Cina e che Taiwan è parte della Cina.
Ogni tipo di rapporto tra Washington e Taipei, dunque, doveva avvenire
esclusivamente attraverso “forme non governative”.
Il processo di taiwanizzazione e l’indipendenza dalla Cina
È il 25 ottobre 1945 e per Taiwan è un giorno di festa, il giorno del “ritorno”. In
fuga dalla Cina, in quella che si prefigura ormai una sconfitta per mano dei
comunisti guidati da Mao Zedong, arriva sull’isola il nazionalista Chiang
Kai-sheg insieme ai suoi uomini. Taiwan sta uscendo da cinquanta anni di
dominio coloniale giapponese e vede in questo “ritorno” la fine della
colonizzazione giapponese. Un periodo in cui l’insegnamento della lingua
cinese è stato fortemente contrastato, a cinesi e aborigeni è stato ordinato di
cambiare i propri nomi con quelli giapponese, e più in generale sono state
perseguite politiche finalizzate alla distruzione dell’identità tradizionale.
Eppure l’entusiasmo per l’arrivo di ciò che ne è rimasto del Kuomintang, il
partito nazionalista cinese, non dura a lungo: anche per i “continentali”, gli
abitanti di Taiwan sono cinesi di serie B. Si sono piegati al volere dei
colonialisti e non hanno saputo difendere i valori della tradizione cinese. Dalla
Cina cominciano ad arrivare migliaia e poi decine di migliaia di cinesi che
vengono agevolate dal punto di vista economico, politico e sociale. Alle prime
proteste, il governo nazionalista risponde con una dura campagna per
“sterminare i traditori”, ovvero le élite taiwanesi che sotto il colonialismo
giapponese hanno raggiunto posti di comando. Viene imposta la legge
marziale e bandite le elezioni, per cui chi viene eletto tra il 1947-1948 rimane
in carica senza vincoli di mandato. La vittoria definitiva dei comunisti in Cina e
l’insediamento di Chiang Kai-shek a Taiwan porta all’ingresso di quest’ultima
nel Consiglio di sicurezza Onu – fino al 1971 quando gli Stati Uniti tolgono il
veto sulla Repubblica Popolare cinese. Il sostegno economico e militare degli
Stati Uniti – che di fatto ha scoraggiato Pechino nell’intraprendere
un’invasione – ha posto le basi per il “miracolo economico” di cui Taiwan è
stata protagonista per tutti gli anni Sessanta e oltre, trasformando di fatto
l’economia dell’isola da agricola a industriale.
È solo con la morte di Chiang Kai-shek nel 1975 che ha inizio il “processo di
taiwanizzazione”. Ai movimenti che iniziano a nascere negli anni Ottanta,
questa volta il governo, guidato dal figlio Chiang Ching-kuo, si apre ad un
graduale processo di democratizzazione. Viene abrogata la legge marziale e
cade il vincolo per la formazione di nuovi partiti. Nel 1990 diventa presidente il
primo taiwanese, Li Teng-hui, sempre sostenuto dal partito nazionalista, che
contribuisce fortemente ad accelerare il processo di taiwanizzazione, fino ad
arrivare ad un’altra svolta della politica interna, nel 2000, quando i nazionalisti
vengono sconfitti alle elezioni e a vincere è Chen Shui-bian, candidato del
Partito democratico progressista. Facendo un salto temporale arriviamo
all’ultimo decennio che ha caratterizzato la politica di Taiwan: il movimento
studentesco del girasole che nel 2014 occupa il palazzo del Parlamento a
Taipei in protesta contro l’Accordo di integrazione economica Cina – Taiwan
voluto proprio dal Partito nazionalista. Il processo di taiwanizzazione nelle
giovani generazioni è ormai completo, e l’elezione della presidente Tsai
Ing-wen prima nel 2016 e poi riconfermata nel 2020 ne è l’espressione
politica.