Nobiltà dell’officina, dove uomo e
tecnica creano il futuro insieme
di Giuseppe Lupo
Nonostante gli scenari modificati e le numerose transizioni fra il periodo in cui
si è affermata la modernità, negli anni 50-60, e quello successivo, quando è
avvenuto il passaggio verso la dimensione di lavoro in epoca post-moderna,
rimane ancora oggi viva nell’opinione pubblica la convinzione che i luoghi
della produzione – gli ambienti dove conta la destrezza delle mani e si
realizza il dialogo tra abilità umane e tecnologia – sono ancora inaccessibili e,
dunque, quasi del tutto sconosciuti.
Nonostante gli scenari modificati e le numerose transizioni fra il periodo in cui
si è affermata la modernità, negli anni 50-60, e quello successivo, quando è
avvenuto il passaggio verso la dimensione di lavoro in epoca post-moderna,
rimane ancora oggi viva nell’opinione pubblica la convinzione che i luoghi
della produzione – gli ambienti dove conta la destrezza delle mani e si
realizza il dialogo tra abilità umane e tecnologia – sono ancora inaccessibili e,
dunque, quasi del tutto sconosciuti.
Svelare le fabbriche
È vero che ci sono aziende visitate da scolaresche o da gruppi organizzati. Ed
è anche vero che ormai sempre più di frequente, accanto ai tradizionali
capannoni delle officine, sorgono spazi espositivi, showroom , strutture
museali che raccontano la storia e il processo produttivo di quell’azienda e
contribuiscono alla costruzione del brand . Ma sono eccezioni rispetto alla
norma che invece, il più delle volte, purtroppo, sembra essere rimasta ferma
al tempo in cui Ottiero Ottieri, uno degli intellettuali più organici all’universo
dell’industria, rifletteva su come fossero considerate impenetrabili e lo
dichiarava in un frammento del suo Taccuino industriale che porta la data del
novembre 1954: «Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e
non si esce facilmente. Chi può descriverlo?».
Il frammento sarebbe finito in una pagina del diario intitolato La linea gotica,
pubblicato nel 1963, l’anno cruciale del boom economico, ed è sufficiente a
fotografare un’epoca in cui l’officina rappresentava certo la realtà più
accreditata all’affermarsi della modernità in tutto il Paese, però destinata solo
agli addetti ai lavori, operai o impiegati che fossero. Come si fa a narrare
un’impresa se non la si conosce, se non la si vede? Non a caso l’idea di una
fortezza inespugnabile sarebbe rimasta a lungo negli occhi di chi avrebbe
tentato il racconto (registi, scrittori, pittori, perisno musicisti), perché l’impresa,
per quanto abbia cercato di evolversi nell’immagine che offriva di sé, si è
dimostrata troppo spesso incapace di scrollarsi di dosso quell’aria di totem
artificiale, quel senso di sopraggiunto, quel suo essere non previsto e tuttavia
inevitabile, che le sue strutture manifestavano in chiunque si avvicinasse ai
cancelli.
La sua “innaturale” presenza – innaturale perché addizionata in maniera
disarmonica a un paesaggio che non la prevedeva inizialmente – ha
continuato a frapporsi all’antropologia di una certa quotidianità come una lente
opaca, un discrimine tra un prima, forse ancora troppo ingenuo, e un dopo,
dove l’ingenuità si è infranta eppure ha continuato a tenere in uno stato di
lontana diffidenza le casalinghe, in ragazzi in età scolare, le famiglie immigrate
dalla campagna, tutta gente che, nonostante vivesse a due passi da una
qualsiasi fabbrica, non conosceva nulla più del muro di cinta o delle ciminiere
che svettavano in altezza o del suono abitudinario della sirena. Perciò essa ha
continuato a rappresentare un’intrusa all’interno di un contesto urbano, di cui
costituiva un paragrafo tanto appartato da generare sospetto.
Aprirsi alla comunità
Negli anni prima, durante e dopo il miracolo non era facile metterci piede, sia
pure per soddisfare il semplice desiderio di capire come funzionasse
l’organizzazione delle mansioni umane accanto alle macchine e cosa si
producesse. Sicché le parole di Ottieri colgono una verità latente e fissano il
paradigma del luogo impossibile da narrare. «I pochi che ci lavorano –
continua – diventano muti, per ragione di tempo, di opportunità. L’operaio,
l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno
fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più».
Il ragionamento è purtroppo indigesto, sia che lo si intenda nel significato di un
auspicio o di biasimo. Certo si tratta di un teorema intellettualistico che poi
sarebbe stato smentito da una lunga fila di libri, film, dipinti, ambientati dentro
o intorno alla fabbrica, però si commetterebbe ugualmente un errore di
prospettiva pensando che sia un giudizio privo di credibilità. Al contrario, le
considerazioni di Ottieri sono il portato di un convincimento diffuso, tant’è che
in quegli stessi anni una rivista autorevole come «Civiltà delle Macchine» si
era posta lo stesso problema e aveva cercato di risolverlo inviando poeti e
pittori a conoscere le catene di montaggio, le mense operaie, i magazzini delle
merci, le aree di stoccaggio. Il discorso non sarebbe finito con
quell’esperimento tant’è che anche nella nuova «Civiltà delle Macchine»,
rinata poco più di un anno fa sotto la direzione di Marco Ferrante e pubblicata
dalla Fondazione Leonardo, questo dialogo con la “sapienza del fare”
continua a rimanere vivo. Per quanto le periferie siano state luoghi di
contaminazione tra le sacche di una premodernità e il moderno che si
manifestava con l’irruenza della tecnologia, contaminazione come fusione per
non dire addirittura di promiscuità – pensiamo a cosa significasse vivere nella
periferia di una città industrializzata del Nord Italia o nell’hinterland tra anni 60
e 80 – delle officine, oggi, continuiamo a sapere poco. E ne constatiamo gli
effetti sia perché l’epoca della dismissione ha lasciato viva la nostalgia di
qualche capannone rimasto in piedi, insignito dell’etichetta di archeologia
industriale, sia perché la nozione di industria si è modificata proprio per effetto
della globalizzazione ed è davvero complicato rintracciare quel che sopravvive
del tempo di ieri.
Il connubio
Sono questi i presupposti da cui far cominciare una rubrica intitolata «Officina
Italia», pensata alla luce delle affermazioni di Ottieri: per comprendere l’anima
produttiva di questa nazione è necessario visitare le tante realtà dove la
regola del fare nasce dall’incontro fra altissima tecnologia e sapienza
artigiana, il connubio migliore che possa esistere fra qualità e produzione in
vasta scala, l’unico, vero settore in cui il Paese, a prescindere se ci si trova in
aree geografiche del Nord o del Sud, esprime la sua più convincente
vocazione produttiva.
In effetti, osservando il panorama delle nazioni che ci stanno intorno, si ha la
netta percezione di una attitudine manifatturiera che attribuisce un preciso
orientamento al tipo di capitalismo declinato nella maniera tutta italiana. Esiste
una tradizione, insomma, che appartiene specificamente a noi e questa
tradizione è più facile riscontrarla là dove è quasi invisibile la linea che separa
il ruolo svolto dalla presenza tecnologica e la sapienza che resiste nel
richiamo millenario alla capacità artigiana e che trova nel concetto di officina il
suo ambito per manifestarsi.
Bisogna, certo, intendersi su cosa significhi “officina”. Qualsiasi luogo dove
creatività e materia si mescolano può esserlo. Teoricamente lo è anche un
centro di ricerca universitario o un periodico culturale (nel 1955, a Bologna,
Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi fondarono una
rivista di poesia, dal titolo di «Officina») perché al di là della consuetudine di
produrre oggetti, al di là dell’inclinazione a costruire, c’è qualcosa in più che
anima le imprese, un orgoglio, un primato che domina negli opifici
manifatturieri e che si riverbera nei posti che visiteremo (un catalogo non
esaustivo, fatto di realtà diverse per dimensioni, storia e collocazione
geografica): il laboratorio di pipe Radice, in riva al lago di Como, per esempio,
o la casa sartoriale Kiton, nei dintorni di Napoli, o la fabbrica di chiavi Keyline,
a Vittorio Veneto, che risale al 1770. E se la nozione di officina trionfa a vista
d’occhio visitando i capannoni di Vicenza, dove si riparano i Frecciarossa delle
Ferrovie dello Stato, o ascoltando i colpi di maglio nelle Fucine Umbre di
Terni, non si può dimenticare che lo stesso concetto andrebbe applicato
anche quando si varcano le tettoie della casa Amarelli, una tra le più antiche
ditte al mondo, che ricava liquirizia al centro di una piantagione a Rossano
Calabro, in riva al mar Jonio. Poco conta se i procedimenti utilizzati per
cesellare il pennino delle penne stilografiche Aurora, a due passi dall’Abbadia
di Stura, nei pressi di Torino, abbisognano di quella specifica perizia manuale
che è richiesta anche in chi appronta la inconfondibile sagoma dei motoscafi
Riva, in riva al lago d’Iseo, così iconici del modo di vivere all’italiana che ha
trionfato nel mondo.
Per quanto cambi il tipo di prodotto, il minimo comune denominatore del
nostro made in Italy resta l’attitudine laboratoriale contenuta nell’esercizio di
dare vita a oggetti e ciò rappresenta il lascito più autentico del rapporto con le
risorse tecnologiche, il mai sopito duello tra individui e macchine. Pur nella
loro eterogeneità, l’insieme di queste visite concorre a sottolineare che non
tutto viene demandato all’automazione, che qualcosa sopravvive di un’antica
preistoria artigianale e che sotto la patina di una liturgia produttiva altamente
specializzata, di cui i gesti robotizzati sono il risultato di una perfezione
consolidata, soggiace il rischio di errore e il genio umano, a ricordare che
occorre guardare ai risultati come tappe intermedie di una ininterrotta civiltà
della creazione.