IMPRESE E LAVORO – Smart working, ora cosa succede?

Smart working, ora cosa succede?
In questi giorni si sta riflettendo in merito ad una proposta di legge per
dare incentivi economici e crediti di imposta per incentivare il lavoro
agile. Per capire meglio cosa succederà al lavoro agile nel
post-pandemia abbiamo intervistato Arianna Visentini, CEO e Founder di
Variazioni
di Valentino Santoni
Come sarà lo smart working post-pandemico? Nel corso delle ultime
settimane ci siamo posti spesso questa domanda. Abbiamo anche provato a
rispondere analizzando i dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano e
approfondendo il ruolo del sindacato e della contrattazione.
Quella che emerge è una fotografia poco nitida. Da un parte sembra esserci il
tentativo di sostenere le imprese attraverso il mantenimento delle procedure
semplificate, mentre dall’altra permane ancora la miopia di alcune
organizzazioni o addirittura di interi settori (come quello Pubblico).
L’approccio delle imprese verso il lavoro agile
Questa frammentazione nella visione delle imprese è evidenziata anche da
chi si occupa quotidianamente di smart working. Arianna Visentini, fondatrice
e CEO di Variazioni, società che accompagna le aziende proprio
nell’implementazione dello smart working e di change management, ci ha
infatti spiegato come ad oggi non esistano trend univoci che sintetizzano il
comportamento delle aziende.
“Attraverso una prima analisi di una nostra recente indagine, abbiamo
individuato quattro approcci differenti verso lo smart working. Il primo, che
abbiamo definito “resistente”, riguarda quelle organizzazioni che vedono
ancora il lavoro agile come un evento straordinario. Queste magari hanno
avuto la possibilità di sperimentare questo strumento nel corso dei mesi
passati, oggi stanno cercando di ripristinare quella rigidità oraria e
organizzativa vigente prima della pandemia”.
“Ci sono poi le imprese “caute”, cioè quelle che stanno cercando di adeguarsi
ai nuovi trend più flessibili e smart, ma lo fanno come un adempimento. Lo
smart working è visto come una concessione e non tanto come
un’opportunità. C’è quindi ancora una visione limitata: di solito adottano lo
stesso orario dell’ufficio, non utilizzano strumenti di monitoraggio degli obiettivi
evoluti e i manager hanno ancora una visione del lavoro piuttosto
tradizionale”, ha proseguito Visentini.
Esistono poi altre due tipologie di organizzazioni che sono invece più aperte
all’innovazione e quindi più interessate alle opportunità del lavoro agile. Dopo
aver sperimentato lo smart working, queste realtà hanno capito le sue
potenzialità anche dal punto di vista dei vantaggi per la produttività e per il
benessere dei lavoratori.
Queste sono imprese che Variazioni ha definito “reattive” e “lungimiranti”. Per
Visentini, “le organizzazioni reattive sono quelle che hanno colto i
cambiamenti che riguardano il lavoro e la flessibilità e hanno compreso anche
gli stimoli e gli interessi che arrivano dai lavoratori. Soprattutto a seguito della
pandemia stanno facendo degli importanti passi in avanti, innovando i loro
sistemi digitali – sia hardware che software – e avviando percorsi di
formazione per manager e impiegati”.
“Infine ci sono le imprese lungimiranti, cioè quelle che – da un certo punto di
vista – sono visionarie. Nel senso che stanno già pensando ad una nuova
concezione del lavoro, incentrata sulla qualità e sul benessere delle persone.
Questo tipo di imprese è propenso a lasciare molta libertà ai suoi
collaboratori, anche per quanto riguarda i luoghi in cui svolgono le loro attività.
Sono, ad esempio, quelle realtà che promuovono un lavoro da remoto inteso
in senso molto ampio, fatto nei piccoli borghi e nelle piccole città del
Meridione”.
Il comportamento delle imprese verso lo smart working secondo Variazioni.
Lo smart working nella nuova normalità
Ad incidere sulla possibilità di implementare lo smart working vi sono – e
molto probabilmente saranno anche nel prossimo futuro – una serie di aspetti
da tenere presenti.
In primo luogo, come abbiamo sottolineato anche qui, spesso le micro e le
piccole imprese non hanno i mezzi e le risorse per portare avanti quel
processo di rinnovamento necessario per rendere strutturale il lavoro agile.
Ciò è confermato anche da Visentini, che sostiene che “le grandi aziende
hanno più di frequente gli strumenti tecnici e le competenze per impostare
policy di lavoro smart. Possono contare sulla presenza di manager HR attente
al people management e che hanno già riflettuto in merito all’attivazione di
strumenti per il benessere e la motivazione dei collaboratori”.
Ci sono poi alcuni settori che sono ancora molto indietro, da un lato per
ragioni legate alla cultura manageriale (è ad esempio il caso della Pubblica
Amministrazione) e, dall’altro, per la difficoltà nel remotizzare alcuni processi
produttivi.
Per quanto riguarda l’aspetto culturale, è infatti chiaro che lo smart working
deve essere accompagnato da un profondo cambiamento di mentalità che –
oltre a maggiore autonomia e responsabilità per il lavoratore – richiede fiducia
da parte dell’imprenditore e nuove forme di valutazione e monitoraggio degli
obiettivi (e non più di “controllo”).
Ma non solo. “Spesso si sconta ancora un retaggio del passato per cui tutti i
collaboratori devono poter accedere forzatamente alle stesse misure. Quindi
molti non concedono lo smart working a chi potrebbe farlo per non creare una
condizione di difformità all’interno dell’azienda, ad esempio tra operai e
impiegati. Però così si rischia di limitare le opportunità di molti”, ci ha detto la
fondatrice di Variazioni.
Mentre sul fronte della remotizzazione dei processi, si stanno facendo alcuni
importanti passi in avanti. “Oggi stiamo assistendo all’emersione di nuove
tecnologie anche per quanto riguarda la produzione manifatturiera e
dell’industria in senso stretto. Gli operai sono sempre più specializzati e,
grazie al digitale, alcune mansioni possono anche essere svolte a distanza. Ci
sono perciò nuovi margini per il lavoro agile sotto questo profilo”, ha
proseguito Visentini.
Verso una nuova regolamentazione?
Ora lo sforzo da fare è quello di riuscire a passare in maniera stabile dallo
smart working “per necessità” a quello “per scelta”. “La pandemia ci ha
costretto ad un apprendimento accelerato di mostri strumenti e dispositivi per
il lavoro a distanza, come le piattaforme di collaborazione programmi per le
videochiamate e altre applicazioni. Ora queste competenze vanno
riposizionate dentro un percorso consapevole, sia rivolto ai lavoratori sia
all’azienda”, ha concluso Visentini.
Proprio a tale scopo, come riportato anche da Il Sole 24 Ore, in queste
settimane sta prendendo forma una proposta di legge finalizzata a incentivare
il lavoro agile. La proposta prevede che molte delle tematiche che – ad oggi –
possono essere regolamentate solo attraverso l’accordo individuale potranno
essere definite anche dalla contrattazione collettiva (quindi anche aziendale e
territoriale).
La proposta stabilisce poi la possibilità di accedere a incentivi economici –
attraverso la previsione di credito di imposta o con il Fondo per la promozione
del lavoro agile – per alcune spese che le aziende sosteranno per
implementare piani di smart working. Oltre alle spese per l’acquisto della
strumentazione tecnologica, pare che saranno ritenuti centrali anche gli
investimenti relativi alla formazione di lavoratori e manager.
Come abbiamo visto non è infatti possibile prescindere dall’acquisizione di
nuove competenze necessarie per accompagnare il cambiamento culturale
del management e di tutta l’azienda. In questo modo potranno affermarsi in
principi alla base dello smart working, e cioè autonomia, flessibilità,
responsabilità, fiducia e superamento del controllo a favore del monitoraggio
degli obiettivi e della qualità del lavoro.
fonte: SECONDO WELFARE

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.