La città dei 15 minuti, ecco il futuro
delle grandi metropoli
Intervista a Carlo Ratti, direttore del MIT Senseable City Lab, su
rinascita e innovazione urbana
Carlo Ratti è un architetto, urbanista e accademico italiano. Insegna presso il
Massachusetts Institute of Technology di Boston dove dirige il MIT Senseable
City Lab. Secondo la rivista “Wired” è una delle “50 persone che cambieranno
il mondo”.
Professor Ratti, come cambieranno le città e soprattutto le grandi
megalopoli dopo il Covid-19?
«Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto guardare
all’esperienza degli ultimi due anni. All’inizio dell’emergenza sanitaria, mentre
il lockdown svuotava le strade delle nostre metropoli, diversi esperti avevano
predetto la fine delle città e un ritorno in massa ai borghi. In realtà è successo
tutto il contrario: la pandemia ha messo in moto un fortissimo potenziale di
rinascita e innovazione urbana – la versione nello spazio fisico di quello che
l’economista Joseph Schumpeter chiamava “distruzione creativa”.
In generale, la pandemia ha agito come acceleratore di cambiamenti già in
corso. Nel mezzo della situazione di emergenza, sindaci e funzionari
metropolitani si sono trovati sprovvisti di “casi studio”, e hanno pertanto potuto
adottare un approccio sperimentale, basato su prove ed errori, per riuscire a
rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini. Un esempio su tutti: le molte azioni di
“urbanistica tattica” che – da Milano a Barcellona – hanno permesso di
restituire spazio pubblico a pedoni e ciclisti.
Che cosa accadrà in futuro, quindi? Nessuno ha la sfera magica, ma ora che
lo stato d’emergenza è stato fortunatamente superato quasi ovunque, io credo
sia essenziale mantenere l’approccio sperimentale di “distruzione creativa” di
cui dicevo poco fa. Se i soggetti pubblici e privati sapranno continuare a usare
la città come banco di prova per nuove idee, e se i cittadini continueranno
a partecipare attivamente alla discussione collettiva sul futuro civico –
accettando al contempo, con il giusto grado di fiducia e pazienza, che per
forza di cose alcune sperimentazioni saranno meno di successo di altre – io
credo che le nostre città potranno davvero diventare più belle e accoglienti».
Qual è stata ad oggi la risposta degli Stati Uniti alla pandemia in tema di
nuovi progetti urbanistici? C’è un desiderio di favorire nuovi modelli di
integrazione urbana?
«Dappertutto nel mondo – non solo negli Stati Uniti – la pandemia ha
evidenziato nuove dinamiche di segregazione urbana. La sfida consiste ora
nel capire come contrastare queste tendenze.
In particolare, dopo il Covid-19 e dopo tanti mesi di lavoro in remoto, io credo
che la priorità sia puntare sul recupero degli spazi fisici di incontro. Il
sociologo americano Mark Granovetter, in un importante articolo scientifico
scritto negli anni Settanta del secolo scorso, classificava i nostri rapporti
sociali in due categorie: “legami deboli” tra conoscenti casuali e “legami forti”
tra familiari o amici, i quali loro volta sono tra loro amici. Una ricerca
sviluppata dal nostro laboratorio al MIT ha evidenziato che lo smart working,
se praticato in maniera esclusiva, rischia di relegarci ai soli “legami forti”,
intaccando la nostra capacità di comprensione del diverso, creando dinamiche
di polarizzazione e di chiusura rispetto alle novità e al confronto con l’esterno
in generale. Lo spazio fisico rappresenta invece un antidoto a
quest’isolamento.
Questo significa quindi dover intervenire sugli spazi di lavoro, creando uffici
che stimolino quello che gli inglesi chiamano “cafeteria effect” – l’effetto
aggregante degli spazi comuni – e il confronto con idee diverse, alla base di
un lavoro creativo. Allo stesso tempo sarà necessario ripensare anche gli
spazi abitativi, più flessibili e accessibili anche per i gruppi sociali più fragili».
La risposta europea è stata principalmente indirizzata alla transizione
energetica e alla sostenibilità. È una grande occasione per modernizzare
il Vecchio Continente?
«La sfida della decarbonizzazione è fondamentale, e in questo molte città del
vecchio continente, e in particolare del Nord Europa, stanno sperimentando in
modi interessanti. Si tratta dei fondi europei, ma anche di iniziative di singole
città.
Ad esempio, nell’ultimo anno, con il nostro studio di progettazione CRA-Carlo
Ratti Associati abbiamo realizzato uno dei progetti vincitori del grande
concorso organizzato dalla municipalità di Helsinki per la decarbonizzazione
del sistema di teleriscaldamento. Il progetto, chiamato Hot Heart, si basa su
enormi isole galleggianti in mezzo al mare, le quali funzionano come batterie
termiche, gestite da sistemi di intelligenza artificiale – consentendo di
immagazzinare l’energia proveniente da fonti rinnovabili. Si va così a risolvere
l’ultimo grande ostacolo per la piena adozione di eolico e solare: fonti pulite ed
economiche, che hanno però un limite importante nella loro natura
intermittente. Al contrario, grazie a Hot Heart, la capitale finlandese conta di
dismettere le proprie centrali a carbone entro il 2030, sviluppando un modello
che crediamo possa essere applicato anche da molte altre città».
I fondi europei stanziati per il rilancio post-Covid e penso in particolare
al PNRR italiano tengono sufficientemente conto dell’esigenza di
investire su città smart e su una mobilità sostenibile?
«Mi sembra di sì anche se bisogna evitare di andare a sviluppare azioni
frammentarie. La mia opinione è che uno strumento appropriato possa essere
quello di creare “masterplan digitali”: piani regolatori relativi non tanto alla
città costruita, quanto alla sua gestione. Le sfide sarebbero davvero
tantissime: dalla mobilità in condivisione, allo sviluppo di piattaforme pubbliche
per la raccolta dei dati, fino agli incentivi per un turismo “lento” che promuova
sia l’imprenditorialità giovanile, sia il volontariato e la solidarietà. Solo con
strategie di questo tipo potremmo gestire in modo organico la trasformazione
post-Covid».
Quanto è importante la mobilità sostenibile per dar vita alle città del
futuro?
«È fondamentale, considerando l’enorme impatto che la mobilità ha in termini
di consumi di energia, inquinamento e traffico.
Naturalmente la mobilità sostenibile si deve inserire in un più ampio
ripensamento delle dinamiche urbane. A questo proposito, un concetto molto
interessante è quello della cosiddetta “città dei 15 minuti”: un’idea
inizialmente sviluppata dall’urbanista francese Carlos Moreno. La città dei 15
minuti mira a riorganizzare lo spazio fisico intorno all’esperienza umana del
tempo. Ogni quartiere diventa un “isocrono”, un’area che può essere esplorata
in un dato tempo, dando a tutti i residenti l’accesso alle loro necessità a una
comoda distanza a piedi.
Credo si tratti di un’idea di cui sentiremo parlare molto in futuro, la quale
peraltro si adatta molto bene alla struttura delle città italiane. Un imperativo
per realizzare le città del futuro è ricordarsi del vecchio adagio del grande
urbanista americano Lewis Mumford, che in epoca non sospetta già scriveva:
“Dimentichiamo le maledette automobili e costruiamo le nostre città per gli
amici e gli innamorati”».
Lei è presidente per il World Economic Forum del Future Council su
Città e urbanizzazione. Come saranno le città del futuro e quali sforzi
dobbiamo fare per modernizzarle?
«Le tecnologie digitali hanno trasformato radicalmente molti aspetti della
nostra vita negli ultimi due decenni: dal modo in cui lavoriamo, a quello in cui
comunichiamo, ci spostiamo e ci incontriamo.
Se dovessi individuare una specifica sfida per il futuro, sarebbe trovare i modi
in cui le nuove tecnologie possono aiutarci a contrastare il cambiamento
climatico – o perlomeno, a contenere gli effetti negativi già evidenti. In termini
più filosofici, si tratta di avvicinare e riconciliare i due grandi poli del naturale e
dell’artificiale, a lungo ritenuti come distinti».
L’analisi dei dati è uno strumento sempre più diffuso anche nella
progettazione di grandi opere infrastrutturali. Quanto è importante la
raccolta e l’analisi dei dati anche nel settore infrastrutturale?
«La raccolta e l’analisi dei dati provenienti dallo spazio fisico sono elementi
fondamentali in molti nostri progetti. Grazie ai dati possiamo contribuire a una
migliore manutenzione delle infrastrutture. Di recente, con i nostri ricercatori
del MIT Senseable City Lab, abbiamo condotto uno studio sperimentale sullo
stato di salute dei ponti.
Attualmente, queste analisi vengono effettuate tramite dei sensori fissi,
direttamente installati sulle infrastrutture. La nostra idea è stata quella di
utilizzare come fonte di informazione gli accelerometri che sono incorporati nei
nostri telefoni cellulari: cosa succederebbe se ogni automobilista che transita
su un ponte potesse agire da “sentinella” del suo stato di manutenzione? In
questo modo sarà possibile non soltanto rilevare i dossi e le buche e lo status
del traffico, ma anche le vibrazioni e le eventuali frequenze anomale».
Lei spesso cita Milano come città all’avanguardia di questa
trasformazione. Cos’ha il capoluogo lombardo che può diventare un
esempio nel mondo?
«Milano è da tempo una calamita di innovazione che funge da traino non solo
per l’Italia, ma per l’Europa del Sud. Nei prossimi anni dovrà continuare a
lavorare sui suoi punti di forza nel campo dei servizi – cultura, design,
comunicazione, moda – al contempo spingendo verso una maggiore
integrazione sociale».
Dal suo osservatorio privilegiato al MIT di Boston, qual è l’atteggiamento
dei giovani universitari rispetto alle tematiche della sostenibilità? Hanno
accresciuto la loro sensibilità verso le aziende “green”?
«Credo che, per quanto riguarda l’attenzione alle tematiche della sostenibilità,
le nuove generazioni siano straordinariamente attente, non soltanto al MIT ma
nelle università ovunque in giro per il mondo! Il cambio culturale è già
avvenuto, e credo che questa sia la migliore assicurazione sul futuro del
nostro pianeta».