PANDEMIA – CHI HA AVUTO IL COVID PUÒ RIPRENDERLO? IMMUNITÀ E REINFEZIONE

CHI HA AVUTO IL COVID PUÒ RIPRENDERLO?
IMMUNITÀ E REINFEZIONE


di Dr. Roberto Gindro – Laurea in Farmacia con lode, PhD in Scienza delle
sostanze bioattive.


RIPETERE LA COVID È POSSIBILE
Ci si può reinfettare con COVID-19? Dopo averla presa, è possibile venire
contagiati di nuovo? A distanza di tempo? Di quanto tempo? E i rischi sono
gli stessi della prima infezione?
Le risposte a queste domande stanno purtroppo trovando una triste, per
quanto prevedibile, conferma con la recente diffusione della variante
Omicron 5, che si è dimostrata capace di eludere le difese immunitarie
sviluppate tanto su precedenti infezioni che, almeno in parte, sui vaccini.
“I soggetti che siano stati infettati da SARS-CoV-2 possono aspettarsi di
essere reinfettati entro 1-2 anni, a meno che non prendano precauzioni
come farsi vaccinare e indossare mascherine, secondo la previsione di
modelli basati sulle relazioni genetiche tra SARS-CoV-2 e altri coronavirus.”
Queste sono le parole con cui esordiva uno studio su Nature pubblicato
nell’inverno del 2021, ma la recente impennata di casi di contagio ha
dimostrato che si trattata almeno in parte di previsioni ottimistiche, scalzate
dall’aumentata trasmissibilità della variante Omicron: anche i soggetti
immunizzati in modo naturale, ovvero in contrapposizione ai
vaccinati, possono aspettarsi di venire nuovamente contagiati, o
prima o dopo, a seconda di fattori quali stato del proprio sistema
immunitario, grado di esposizione al virus e variante contratta in
passato.
Acquisisce invece sempre più credito l’ipotesi che la malattia possa
trasformarsi in endemica:
● Una malattia è pandemica quando si diffonde rapidamente su
vastissima scala, ad esempio tutto il mondo in pochi mesi come
l’attuale COVID-19.
● Una malattia è epidemica quando colpisce quasi
simultaneamente un insieme di persone, ma con una ben
delimitata diffusione nello spazio e/o nel tempo, ad esempio
l’influenza stagionale in inverno. Un modo carino che ho trovato
per ricordare la differenza tra epidemia e pandemia e che la
seconda, “P”andemia, ha il “P”assaporto per andare ovunque nel
mondo, è cioè un’epidemia che viaggia molto.
● Una malattia è endemica quando è costantemente presente, o
molto frequente, in una popolazione o territorio, ad esempio la
malaria in alcune zone asiatiche ed africane, tipicamente con livelli
elevati ma più o meno costanti nel tempo.
● Una malattia sporadica, te lo dico giusto per completezza, è
invece una condizione che si presenta in modo non frequente e
soprattutto imprevedibile, senza alcuna regolarità.
Secondo molti ricercatori la COVID-19 potrebbe diventare una malattia
endemica, seppure su scala molto vasta, trasformandosi cioè da
un’emergenza mondiale ad una presenza costante , magari caratterizzata
da periodiche epidemie, ma in qualche modo sotto controllo. È tra l’altro lo
stesso pensiero anche del CEO di Pfizer, che in una passata intervista ha
espresso lo stesso parere, ipotizzando però che questo passaggio avvenga
non prima del 2024 o comunque quando le popolazioni potranno godere di
una sufficiente immunità da vaccini o da precedenti infezioni, tali per cui si
riuscirà a tenere sotto controllo trasmissioni, ricoveri e decessi nonostante
la circolazione del virus. E questo purtroppo potrebbe anche succedere con
passi diversi, le nazioni dove le vaccinazioni hanno avuto maggior
diffusione potrebbero raggiungere prima questa condizione… l’ennesima
triste dimostrazione di come la storia non cambi mai… piove sempre sul
bagnato…
Il TheAtlantic a mio avviso sintetizza alla perfezione questa idea, scrivendo
che la parola “endemica” è usata per descrivere il punto in cui il pericolo del
virus si riduce fino ai livelli dell’influenza o, meglio ancora, del raffreddore.
Nella sua definizione tecnica, tuttavia, endemica è un termine che descrive
un equilibrio, un punto in cui l’immunità acquisita in una popolazione è
bilanciata dall’immunità persa. L’immunità può essere acquisita attraverso
la vaccinazione o l’infezione naturale e può essere persa attraverso la
naturale diminuzione della risposta immunitaria, l’insorgenza di nuove
varianti o più semplicemente il turn-over della popolazione, quando cioè
vengono a mancare anziani immuni e nascono bambini nuovamente
suscettibili. In questa situazione l’impatto di un agente patogeno diventa
molto più prevedibile e stabile, seppure magari con periodiche fluttuazioni
legate ad esempio alla stagionalità.
Un secondo studio, condotto questa volta in Quatar, ha rilevato che dopo la
prima ondata circa il 40% della popolazione era entrata in contatto con il
virus. Sono state poi analizzate due successive ondate, rispettivamente da
variante alfa e poi da variante beta: com’è cambiato il rischio di nuova
infezione e soprattutto di mortalità?
Anche in questo caso le persone sono tornate ad essere positive, seppure
con una probabilità sensibilmente inferiore rispetto a quelli mai venuti in
contatto, ma fortunatamente i casi di reinfezioni vedevano abbattersi del
90% il rischio di ospedalizzazione o morte. L’autore conclude senza una
risposta con le stesse domande che ci siamo già posti:
Quanto dura questa protezione? Magari come per il raffreddore, ovvero
assoluta per un breve periodo e poi tendente alla diminuzione ma
mantenendo un’immunità più a lungo termine verso le complicazioni?
Boh? Possibile… Speriamo… perché potrebbe essere la strada verso
l’agognato andamento endemico…
COSA ASPETTARCI?
Inizialmente l’abbiamo paragonata per gravità all’influenza stagionale… poi
l’abbiamo paragonata alla Spagnola sperando che come questa
automagicamente sparisse, possibilmente senza la stessa drammatica e
devastante scia di morti, ora mi sembra che iniziamo a rassegnarci al fatto
che dovremo conviverci…
Sicuramente come esseri umani non siamo bravi a fare previsioni, ma
vorrei chiudere con un concetto scientifico davvero fondamentale: “Tutti i
modelli sono sbagliati, ma alcuni sono utili”. Pensare che la realtà combaci
con un modello o che un modello sia una previsione del futuro, è
un’ingenuità tipica di molte persone ed un errore più o meno consapevole
commesso da tanti giornalisti e divulgatori in cerca del titolo, dovremmo
invece tutti quanti, io per primo, abituarci all’idea che le risposte sono il
frutto di approssimazioni successive, di graduali avvicinamenti a modelli più
funzionali che possono richiedere tempo, anche tanto tempo, anche perché
devono adattarsi ad un ambiente in perenne mutamento e tutt’altro che
statico.
Panta rei, tutto scorre e tutto cambia, e la scienza non può fare altro che
rincorrere una realtà in continua evoluzione, ecco la ragione di questi
cambi di prospettiva, ecco perché si parla di attendere ulteriori dati: non è
miopia della scienza, al contrario, è la lungimiranza dettata dalla
consapevolezza che una quantità limitata di dati potrebbe nascondere
anomalie statistiche, fattori confondenti o eventi impossibili da prevedere

.
FONTI E BIBLIOGRAFIA
● Severity of SARS-CoV-2 Reinfections as Compared with Primary
Infections, nejm
● COVID reinfections likely within one or two years, models propose,
Nature
● COVID could become endemic


COVID, QUANTO DURA LA PROTEZIONE
DEL VACCINO?
IMMUNITÀ DA VACCINO


Per informazioni aggiornate fare riferimento all’articolo dedicato ad
Omicron, il presente articolo riporta a scopo documentale informazioni oggi
superate.
La campagna vaccinale contro la COVID è in pieno svolgimento un po’ in
tutto il mondo, purtroppo con alcune tristi eccezioni nei Paesi più poveri in
cui la disponibilità di dosi è davvero troppo scarsa, ed è quindi naturale
chiedersi quanto possa durare l’immunità sviluppata a seguito della
vaccinazione.
La risposta è che non lo sappiamo ancora con esattezza, ma le prime
caute stime iniziali che ipotizzavano almeno 6 mesi sono state rivedute alla
luce della più recente letteratura e portate a circa 8-9 mesi, al netto di
fattori quali
● possibili future varianti (da quelle attuali i vaccini sembrano
proteggere adeguatamente bene),
● differenze tra le tecnologie con cui sono sviluppati i vaccini, c’è ad
esempio grande speranza ed ottimismo sui vaccini ad mRNA
(Pfizer e Moderna) su cui di fatto abbiamo esperienza molto più
limitata,
● risposte individuali soggettive, che potrebbero rendere conto di
differenze più o meno marcate.
C’è un’altra questione aperta in merito al vaccino, ovvero se la risposta
immunitaria sia paragonabile a quella prodotta da un’infezione naturale;
anche in questo caso la risposta è tutt’altro che certa, ma l’impressione è
che sì, sia altrettanto robusta, ma soprattutto paragonabile a quella legata
ai casi più gravi di malattia, rispetto invece a chi la contrae in forma leggera
o addirittura asintomatica che sembra invece essere associato ad una
risposta più debole.
Immunità da malattia
Le persone che sono guarite da COVID-19 sono protette dalla futura
infezione da SARS-CoV-2?
Purtroppo nemmeno a questa altrettanto legittima domanda siamo in grado
di rispondere con certezza, anche se un interessante lavoro pubblicato su
Science a febbraio rileva come a distanza di 6-8 mesi diversi soggetti
presentino ancora quantità misurabili di anticorpi in circolo, sebbene con
qualche differenza soggettiva.
Se è noto che per alcuni virus, si pensi ad esempio al morbillo così come
ad altre malattie esantematiche, la prima infezione garantisce l’acquisizione
di una capacità di risposta con durata sostanzialmente permanente, questo
non vale per l’influenza stagionale, che proprio per lo stesso motivo
richiede un’annuale vaccinazione a chi decide di optare per questa strada.
Una delle principali ragioni di questa differenza è la facilità e rapidità con
cui il virus influenzale muta, caratteristica purtroppo che sembra essere
condivisa anche dal nuovo coronavirus.
Tuttavia, citando testualmente le parole di un gruppo italiano che ha poco
prodotto un interessante lavoro di revisione in merito
Ad oggi, se paragonati all’enorme numero di contagiati, sono
stati segnalati in tutto il mondo così pochi casi di reinfezione da
COVID-19 da potersi ritenere che tali segnalazioni siano
“aneddotiche” e specialmente concentrate negli operatori sanitari
che sono riesposti al virus molto intensamente.
Considerando che il virus è in circolazione da quasi un anno e mezzo
appare quindi un’osservazione ragionevolmente confortante, anche se
purtroppo non ci consente di fare predizioni certe.
Sulla base di precedenti lavori di ricerca condotti su altre forme di
coronavirus sembrano esserci alcuni motivi che autorizzano ad un cauto
ottimismo, in quanto l’immunità acquisita in alcuni casi dura anni e
protegge da reinfezione o, nella peggiore delle ipotesi, dallo sviluppo di
malattia conclamata (ovvero si può verificare una nuova infezione, si
diventa contagiosi, ma non si sviluppano i sintomi né tanto meno le
complicazioni), sebbene purtroppo non dobbiamo dimenticare che lo
stesso raffreddore è causato da numerosi virus tipicamente invernali, tra
cui proprio diversi coronavirus, e chiaramente in questo caso l’acquisizione
di immunità è decisamente più breve.
Nello stesso abstract viene inoltre raccontato, seppure si tratti ovviamente
di rilevazioni più limitate e quindi non necessariamente generalizzabili, che
nella struttura ospedaliera dove lavorano gli autori diversi operatori sanitari
precedentemente contagiati e poi guariti vadano talvolta incontro ad una
improvvisa risalita degli anticorpi, senza tuttavia mostrare positività al
tampone molecolare. L’ipotesi è che le cosiddette cellule di memoria
rimangano in circolo in quantità ridotte, purtuttavia capaci in qualsiasi
momento di garantire una pronta ed adeguata risposta anticorpale in caso
di nuovo contatto, come succede ad esempio nel caso di malattie come la
varicella. Addirittura alcuni autori sono convinti che queste cellule, i
cosiddetti linfociti B memoria, potrebbero essere anche in grado di adattarsi
in pochi giorni a nuove varianti.
I motivi di ottimismo quindi ci sono ed è bene ribadire che gli attuali dati
sono di fatto temporanei, basati sul periodo di osservazione
necessariamente limitato dalla giovane età del virus che ci troviamo ad
affrontare.
Cosa ci aspetta quindi per il futuro?
Si sta consolidando, almeno in una parte della comunità scientifica, l’ipotesi
che l’infezione da nuovo coronavirus possa diventare una malattia che ci
accompagnerà a lungo, necessitando di un periodico richiamo del vaccino
un po’ come succede per l’influenza stagionale, e sono orgoglioso di
ricordare che ho sentito per la prima volta questa ipotesi per bocca della
nostra Ilaria Capua, circa un anno fa.
Questa prospettiva si basa principalmente sull’osservazione di due fattori
chiave:
● la facilità con cui il virus muta, superiore all’influenza stessa, ma
inferiore ad altre malattie come l’HIV,
● la possibile ridotta durata dell’immunità naturale o da vaccino,
anche se come abbiamo visto si tratta di una domanda ancora
aperta.
Si tratta per ora di ipotesi, perché non mancano visioni più ottimistiche che
predicono, o quantomeno ritengono ancora plausibile:
● una lunga durata dell’immunità, di fatto ad oggi stiamo ancora
osservando cosa succede mentre succede,
● e/o addirittura il raggiungimento di un’immunità di gregge, che
consentirebbe di eradicare l’infezione in modo definitivo o quasi,
ma ammesso e non concesso che questo sia possibile è
necessario dare una mano ai Paesi più in difficoltà.
Nel frattempo la comunità scientifica è ovviamente tutt’altro che ferma a
guardare, sono ad esempio allo studio diversi approcci al problema della
possibile durata limitata dell’immunità, che prevedono tipicamente dosi di
richiamo, studiando la risposta che si ottiene al variare non solo dei tempi,
ma in alcuni casi anche ricorrendo a formulazioni diverse da quelle del
primo ciclo vaccinale.

FONTI E BIBLIOGRAFIA
● CNN
● ISS
● Quotidiano Sanità
● Immunological memory to SARS-CoV-2 assessed for up to 8
months after infection, Science
● SARS-CoV-2 infection rates of antibody-positive compared with
antibody-negative health-care workers in England: a large,
multicentre, prospective cohort study (SIREN), The Lancet
● Washington Post
fonte:
Comunicato Stampa N°48/2022 – Covid-19: i
dati principali del monitoraggio della Cabina
di Regia
Istituto Superiore di Sanità_ 8 luglio 2022
Ecco i dati principali emersi dalla cabina di regia:
● Sale l’incidenza settimanale a livello nazionale: 1071 ogni 100.000 abitanti
(01/07/2022 – 07/07/2022) vs 763 ogni 100.000 abitanti (24/06/2022 –
30/06/2022).
● Nel periodo 15 giugno – 28 giugno 2022, l’Rt medio calcolato sui casi
sintomatici è stato pari a 1,40 (range 1,36-1,46), in aumento rispetto alla
settimana precedente ed oltre la soglia epidemica. L’indice di trasmissibilità
basato sui casi con ricovero ospedaliero è in aumento ed anch’esso sopra la
soglia epidemica: Rt=1,24 (1,21-1,28) al 28/06/2022 vs Rt=1,22 (1,18-1,26) al
20/06/2022.
● Il tasso di occupazione in terapia intensiva sale al 3,5% (rilevazione
giornaliera Ministero della Salute al 07 luglio) vs 2,6% (rilevazione giornaliera
Ministero della Salute al 30 giugno). Il tasso di occupazione in aree mediche a
livello nazionale sale al 13,3% (rilevazione giornaliera Ministero della Salute al
30 giugno) vs il 10,3% (rilevazione giornaliera Ministero della Salute al 30
giugno)
● Nessuna Regione/PA è classificata a rischio basso. 12 Regioni/PPAA sono
classificate a rischio moderato ai sensi del DM del 30 aprile 2020 (2 di queste
ad alta probabilità di progressione), mentre 9 Regioni/PPAA sono classificate
a rischio alto per la presenza di molteplici allerte di resilienza e una per non
aver raggiunto la soglia minima di qualità dei dati trasmessi all’ISS
● Venti Regioni/PPAA riportano almeno una singola allerta di resilienza. Nove
Regioni/PPAA riportano molteplici allerte di resilienza.
● La percentuale dei casi rilevati attraverso l’attività di tracciamento dei
contatti è in lieve aumento (10% vs 9% la scorsa settimana). In diminuzione la
percentuale dei casi rilevati attraverso la comparsa dei sintomi (41% vs 44%),
e in aumento la percentuale dei casi diagnosticati attraverso attività di
screening (49% vs 47%).
fonte:

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